TRAMM >

Un mondo di scrittura

Corso di scrittura creativa dai 18 anni

Hai una storia? Un’idea? Oppure vorresti scrivere, ma non sai proprio da dove partire?

Questo è il posto giusto per te!

Scopri uno spazio dove imparare a scrivere, dare vita al tuo racconto o ricevere indicazioni per addentrarti nel mondo della scrittura.

Il tutto ti condurrà a creare una vera sceneggiatura teatrale che verrà messa in scena durante i saggi di “tramm” 2024.

un mondo di scrittura

da 18 anni

100 €

/ciclo
  • 2 cicli da 10 lezioni
  • frequenza quindicinale / 1 h 30 min
  • Giovedì
  • dalle 20.00 alle 21.30
  • docente: IVIL IOMI

La Bottega delle parole animate

Bottega intesa come un luogo familiare, raccolto, ma aperto anche agli altri, dove sentirsi a proprio agio nel creare e dare spazio alla fantasia.

Si parte da una lettura animata per dare voce all’immaginazione, a altre idee e pensieri, per poi metterli su carta e infine interpretare le storie che ne scaturiscono, divertendosi a fantasticare e a creare ognuno con le proprie capacità e i propri talenti. In tal modo i racconti prenderanno una   nuova forma, attraverso l'utilizzo individuale e collettivo dell'espressività: corporea, teatrale, musicale, in totale libertà. L’obiettivo è di non porre limiti alla propria immaginazione, amplificandola su più livelli, con un percorso pratico ed entusiasmante pensato esclusivamente per i bambini.

Bottega delle parole animate

da 6 a 9 anni

100 €

/ciclo
  • 3 cicli da 10 lezioni
  • frequenza settimanale / 1,5 h
  • Dove: presso Isola della Stupidera (Olginate)
  • Martedì
  • Dalle 16.30 alle 18.00
  • docenti: Michela Malimpensa & Tiziana Calamunci

“Le Cinque Dita” di Carlo Vitale | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Questa è la storia di una famiglia, una famiglia strana. In questa famiglia tutti hanno due orecchie, due occhi, due gambe, due braccia, due mani e…  dieci dita, sia alle mani sia ai piedi. Cosa c’è di strano?

Bè, dovete sapere che in questo mondo tutti hanno invece otto dita, camminano lentamente, non si danno mai la mano quando si salutano, perché lo fanno solo da lontano. In fondo a cosa serve salutare se nessuno vuole conoscerti?

Un giorno questa strana famiglia, ah…Dimenticavo i loro nomi! Il padre si chiama Davide, la madre Rebecca, i figli Gioele e Miriam. Dicevo… questa famiglia aveva un cognome strano, Hugh. Ebbene, dicevo, questa famiglia arrivò in un villaggio sul mare, e gli abitanti alzarono lo sguardo su di loro con curiosità e diffidenza, ma poi ripresero la loro vita , come se nulla fosse successo. Il padre, Davide, che sapeva fare i conti, trovò lavoro in un ufficio del porto; la madre, Rebecca, che era una insegnante, andò a lavorare nella scuola dei figli dei pescatori; i due ragazzi, Gioele e Miriam, furono messi in classe insieme, anche se avevano un anno di differenza. In questo villaggio le persone indossavano i guanti tutto il giorno,  e le loro scarpe erano molto larghe. Gli Hugh non capivano perché, ma si adeguarono e, per non destare sospetti, legarono l’ultimo dito del guanto all’anulare, cosicché nessuno poteva vedere che avevano cinque dita; indossarono anche scarpe molto larghe.

Un giorno, mentre Gioele e Miriam erano a scuola accadde il fattaccio: Gioele  era nel salone della mensa scolastica e, per mangiare meglio una mela, si tolse il guanto. I compagni di classe, che videro tutto ciò, si spaventarono, alcuni piangevano, insomma un caos totale! Il giorno dopo il sindaco e il preside della scuola convocarono la famiglia Hugh, e dissero loro: “Dovete andare via subito, è uno scandalo! Voi non siete “normali!”. Gli Hugh ascoltarono tutto senza dire nulla, anzi a tratti sorrisero e questo irritò le autorità presenti che decisero di cacciarli dal villaggio. Loro fecero fagotto e andarono sul molo per prendere il battello, ma ad un tratto sentirono un grido: “Aiuto! Aiuto!”, una bambina era caduta in acqua. Davide si tuffò per raggiungere la piccola, ma si era incastrata negli scogli. Rebecca allungò la mano per aiutarli, Davide e Miriam li raggiunsero e, tirando tutti insieme, riuscirono a salvarla. Tutti gli abitanti del villaggio accorsero al molo e quando seppero cosa avevano fatto gli Hugh si inchinarono e chiesero scusa, volevano abbracciarli ma non sapevano come fare, allora si tolsero i guanti e accadde un fatto straordinario: alle loro mani si era aggiunto un altro dito! Allora corsero dagli Hugh e poterono finalmente abbracciarli, e furono tutti felici come non lo erano mai stati nella loro vita. La crescita del quinto dito aggiunse un pezzo di cuore in loro e un nuovo vocabolo nel loro dizionario: Empatia. Che poi, da quel giorno, è diventato il nome del villaggio. 

“Leon” di Michela Malimpensa | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Questa è la storia di Leon, un mago di strada, un prestigiatore audace, un uomo senza tempo, un uomo del cambiamento.

Leon posava a terra il suo cappello straccio e la gente attorno a lui, entusiasta per i suoi numeri di magia, alla fine di ogni esibizione lo riempiva di monete.

Leon era colmo di gratitudine.

Raccoglieva il suo cappello, faceva un elegante inchino, spegneva la musica che usava per impreziosire l’aria e cominciava a riordinare i suoi arnesi.

Leon attraversava a piedi un’infinità di piccoli paesi, nel Mondo di Maipiù, con lui l’inseparabile Lumière, il suo fedele cagnolino, un sacco a pelo, e un enorme zaino pieno zeppo dei suoi attrezzi da mago.

Non gli serviva nient’altro.

Non riuscivi a dare un età a Leon, quando sorrideva aveva lo sguardo vispo di bambino, quando era assorto a guardare il cielo, potevi dargli cent’anni e anche più.

Leon dormiva dove capitava, ma i suoi luoghi preferiti erano i campi di lavanda, nel mese di giugno. Stanco ma spensierato, vi si stendeva con il suo sacco a pelo, tra le labbra uno stelo di quei minuscoli profumatissimi fiorellini viola, accarezzava il fedele cagnolino e guardava il cielo stellato. Sì perché per Leon la magia esisteva davvero, bastava solo osservare più attentamente i doni della natura. Non si poteva dubitare della sua esistenza finché esistevano i fiori, il vento, l’arcobaleno con i suoi allegri colori, la luna e le amate stelle.

Ma un giorno la sua vita cambiò all’improvviso. Il piccolo Mondo di Maipiù era in pericolo, la gente scappava perché alla morte dell’anziano e buon sovrano ne era subentrato uno molto maligno che aveva invertito tutte le regole:

MaiPiù tristezza, era diventata MaiPiù allegria.

MaiPiù carestia, era diventata MaiPiù cibo in quantità.

MaiPiù terrore, era diventata MaiPiù serenità.

MaiPiù guerra, era diventata MaiPiù pace.

Fu così che, in breve tempo, tutti dovettero scappare, e lasciare il loro amato Mondo di Maipiù.

Leon non si lasciò abbattere, d’altra parte il coraggio era insito nel suo nome. Raccolse le sue poche cose, e camminò a lungo per cercare un altro mondo dove vivere.

Prese anche ogni mezzo di trasporto possibile: barche, aerei, astronavi, razzi spaziali.

E alla fine sbarcò in un luogo che gli sembrò magico. Era magico perché gli ricordava il suo mondo: distese di campi fioriti, paesi allegri e pieni di case colorate, giornate tiepide di sole e vento. Finché non incontrò gli abitanti di quel posto.

Ad ogni suo cenno di saluto si voltavano dall’altra parte. Peggio ancora cambiavano strada se lo vedevano in lontananza. Nessuno voleva dargli alloggio, accampavano le scuse più assurde: che la locanda era piena, che stavano per chiudere, che l’affitto da pagare era molto alto. Spesso veniva deriso, lo guardavano camminare per le vie e poi ridacchiavano alle sue spalle additandolo come fosse un essere ridicolo, da prendere in giro.

Ma c’era anche chi gli diceva chiaramente in faccia che posto per lui non ce n’era, perché già erano in tanti loro, ci mancava un altro da sfamare, per di più straniero.

Leon, che viveva dei suoi spettacoli per strada, non ebbe neppure il coraggio di provarci a fare le sue esibizioni in quel luogo. Cominciò ad avere paura di poter essere scacciato malamente perché la cattiveria lì si respirava nell’aria, temeva di rimetterci la vita.

E così finì presto i suoi risparmi.

Cominciò a sentirsi sempre più triste, trascorreva il tempo pensando ai luoghi della sua terra, al mondo dove viveva, il Mondo di MaiPiù. Perché non importa quanta strada fai, il cuore è sempre con te, insieme a tutto ciò che gelosamente custodisce.

Pensò alle persone a lui care, a tutti quelli che aveva incontrato durante il suo girovagare per le piazze dei paesi, a quei pochi scambi di parole che però  sapevano scaldare il cuore. Pensò ai bambini, al loro vociare forte prima dell’inizio del suo spettacolo, e poi, proprio come per magia, si azzittivano tutti quanti, e i loro sguardi si facevano curiosi e vivaci nell’attesa dell’esibizione.

A Leon piaceva stupire, per lui non c’era nulla di più bello di suscitare meraviglia, sorpresa, incanto,  eccitazione e, perché no, anche una sorta di  evasione.

Ne aveva inventati tanti di numeri di prestigio, di ogni tipo. Gli veniva un’idea, e la strofinava finché non diventava magia.

Un giorno, verso il tramonto, stava attraversando un piccolo paese sempre insieme al suo fidato Lumière. Visto che non c’era nessuno in giro per le strade a quell’ora, decise di fermarsi nella piazzetta per far bere il cagnolino dalla fontanella di un lavatoio.

Tolse lo zaino dalle spalle ma nel poggiarlo per terra si rovesciò, e ne uscì il mazzo di carte con il quale faceva uno dei suoi numeri di prestigio.

Lumière, che in quei giorni era diventato apatico come il suo padrone, alla vista delle carte cominciò a scodinzolare e a girare attorno a Leon come a volerlo pregare di provare a fare il suo numero.

Leon raccolse le carte, guardò il suo cagnolino e sorrise. “E va bene Lumière, visto che non c’è nessuno proviamo a vedere se sono ancora capace di fare magie!” e scoppiò a ridere.

Era tanto che non succedeva.

Si sentiva tranquillo perché non c’era gente e quindi non aveva paura di essere schernito o cacciato via. Era una buona occasione per esercitarsi un po’, in attesa di tempi migliori.

Così, con Lumière come unico spettatore, cominciò a divertirsi e a far apparire e sparire le carte tra le sue mani. Era talmente assorto nella sua magia che non si accorse che il suo cagnolino in realtà non era l’unico spettatore. Un bambino lo aveva visto dalla finestra della sua casa ed era sceso nella piazza per osservarlo meglio. Poi ne arrivò un altro e un altro ancora. Intanto Leon si era messo a provare anche altri dei suoi numeri di prestigio, aiutato da un intraprendente e allegro Lumière.

In pochi minuti tutta la piazzetta era colma di bambini, la magia la si vedeva riflessa nei loro occhi limpidi e puri.

Arrivarono anche gli adulti, i genitori di questi bambini. Prima con aria di sfida, con passi veloci come a volere cacciare via quel mago, ma poi, una volta avvicinatisi di più, si incuriosirono a vedere le magie di Leon, e rimasero senza più parole. Senza più rabbia.

Sarà stato merito dell’illusionismo, della musica che aleggiava nell’aria, del piccolo Lumière che faceva le acrobazie, fatto sta che tutti gli abitanti di quel paesino in poco tempo si radunarono attorno alla piazza a osservare, ridere e a lasciarsi incantare.

Quando Leon terminò le sue esibizioni, ci fu un attimo di silenzio. Lui guardò i bambini, fece un inchino e si fermò. Non aveva il coraggio di posare a terra il cappello per le offerte.

Ma dal cielo arrivò cinguettando un colibrì, tutto colorato, che prese il cappello con il suo becco e lo posò a terra.

Una ragazza si avvicinò a Leon, gli sorrise e pose la prima moneta nel cappello.

Anche gli altri, incitati dai bambini, lasciarono delle monete nel cappello straccio, fino a riempirlo tutto.

La ragazza rimase vicino a Leon e quando la gente stava cominciando ad andare via, gli disse “ Lo sai che il Colibrì è simbolo di speranza? Raccontami da dove vieni.”

Si sedettero vicino al lavatoio e Leon si lasciò andare in un turbinio di emozioni, e tra pianti e risate, raccontò alla ragazza la sua storia.

La ragazza lo ascoltava incantata, e dopo qualche istante di silenzio gli disse: “Vedi Leon, cosa è accaduto stasera? Ognuno può avere un’origine diversa, avere la pelle scura o chiara, arrivare da Marte o dalla Luna, ma ognuno gioisce allo stesso modo. E il fatto che il colibrì sia arrivato proprio da te, quando ne avevi bisogno, è anche quella magia. Questi piccoli uccelli possono volare senza sosta per lunghe distanze. Rappresentano resistenza e resilienza. Proprio come la rappresenti tu, con tutto il cammino che hai fatto. Non ti sei arreso.”

“Stavo per farlo” rispose Leon. “Se non fosse stato per il mio amico Lumière non avrei più realizzato le mie magie. Ma in tutto questo mio vagare, mi sono reso conto che nessun giorno è uguale all’altro. Ogni mattina porta con sé un particolare miracolo, un proprio momento magico. Sta a noi coglierlo. E stasera è avvenuto qualcosa di davvero magico.”

“Cosa farai adesso Leon?” Le chiese la ragazza. “Se non hai un posto dove andare potresti venire alla Casa degli Artisti, dove abito anche io.“

“La speranza del Colibrì è come un tappeto magico, amica mia. Mi ha trasportato dal mio mondo ad un altro, e mi ha aperto a infinite possibilità. Grazie di cuore.”

“Anche grazie è una parola magica sai? Chi la riceve sorride sempre!” esclamò la ragazza, con il viso dipinto di gioia.

E fu così che i due, insieme al piccolo Lumière, si incamminarono verso la Casa degli Artisti. Là dove la diversità era una ricchezza, là dove si riunivano persone da tutto l’universo. Là dove ognuno poteva esprimere il suo talento e farne un’opportunità.

Là dove Leon poté ricucire le sue ferite, con un filo intrecciato di amore, amicizia e magia. Il mondo di Maipiù era sempre nel suo cuore. Perché l’amore viaggia con te, ovunque tu vada.

“Giallo, bianco e nero” di Maria Carla Conti | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Ali abitava nella valle del sentimento, arrivato in questa valle dopo il naufragio, superando le avversità del mare.

Amava suonare la tromba, la sua melodia raggiungeva tutta la valle, si vergognava di essere diverso: aveva un grosso naso, quando russava i vicini si lamentavano ed era faticoso per lui starnutire.

Gli abitanti della valle non lo avevano mai accettato, sia per il colore della pelle che per il grosso naso, era schernito e offeso da tutti, anche dai bimbi

Ali era molto triste, si costruì un capanna nel bosco e così almeno non veniva più deriso per la sua diversità. Suonava il suo strumento in modo magistrale, gli animali del bosco lo attorniavano incantati dalla melodia, gli alberi con i loro rami danzavano leggiadri accompagnati dal leggero venticello. I fiori si mescolavano con i loro colori, le farfalle erano desiderose di volare per prendere sapori e profumi diversi.

Ali era felice nella sua solitudine, attorniato da tanta bellezza, non si sentiva più diverso.

Poco distante dalla dimora di Ali, c’era una piccola tribù di indiani: il capo Piuma Gialla, era in attesa di qualcosa che era già scritto nel tempo, nessuno però ne avrebbe mai immaginato le conseguenze.

– È nata! Senti come strilla, sarà una grande guerriera!

Per giorni nel villaggio ci fu una grande festa. Piuma Gialla fiutava nell’aria qualcosa di strano, si recò nella tenda e con grande stupore si accorse che i capelli della piccola Malibù erano rosso fuoco, emanava una luce cosi intensa che anche il sole dovette indossare gli occhiali per non essere folgorato da questa immensa luce.

Si consultò con il capo tribù e decisero di cucire un cappello di foglie per la bimba, questo cappello non doveva essere tolto sino al raggiungimento del decimo anno di età, e solo a tempo debito l’arcano dei capelli rossi sarebbe stato svelato.

Malibù crebbe velocemente. Un giorno si recò al fiume, sicura di non essere vista da nessuno si tolse il cappello, ma non si accorse che qualcuno la stava spiando.

Ali scoprì questo fiume e nel vedere la ragazzina rimase incantato dalla sua diversità: aveva i capelli talmente rossi che illuminavano il giorno e la notte. Prese la tromba e si mise a suonare, intorno una magia di colori si mischiavano nella natura.

Malibù si avvicinò intimorita, ma anche curiosa per la melodia che risuonava in tutta la valle.

– Ciao, chi sei?

– Sono Malibù, una bimba indiana, costretta dal capo tribù a indossare questo cappello di foglie per la diversità di colore dei miei capelli che illuminano il giorno e la notte, in un contesto magico.

– E tu?

– Io sono Ali, mi sono costruito un capanna nel bosco perché non ero accettato nel mio villaggio, per il mio grosso naso, come vedi, e il colore della mia pelle. Siamo due persone diverse ma ognuno è speciale, appunto per essere diverso, diversi non significa essere sbagliati, è fonte di ricchezza. Solo perché hai la pelle nera, puoi essere aggredito o insultato per la strada, siamo persone invisibili agli occhio della gente, mi fa paura l’ignoranza.

– Siamo diversi, tu per il tuo grosso naso, io per i miei capelli rossi:  il tuo naso ti permette di fiutare i pericoli intorno a te, la tua dote speciale è suonare la tromba, il colore dei miei capelli illumina il giorno e la notte, rendendo visibile ogni particolare, queste sono ricchezze che nessuno mai capirà.

Ali e Malibù si incamminarono insieme in cerca di un riparo ben nascosto, nessuno li avrebbe trovati, ognuno poteva vivere della sua ricchezza senza problemi. La piccola indiana sapeva che questa volta aveva combinato un grosso guaio abbandonando la mamma e la tribù, ma sicura dell’amicizia con Ali il problema si sarebbe risolto.

Penna gialla e tutta la tribù, e pure gli abitanti della valle del sentimento, si misero in cammino alla ricerca degli scomparsi. Ali e Malibù erano consapevoli delle loro ricchezze dell’armonia della musica, il giorno e la notte in un magico connubio di bellezza.

Il suono della tromba, e il mutare dei colori agevolarono le ricerche.

– Fermi! -, disse Penna Gialla, –  non proseguite il cammino, ritornate con noi!

– Abbiamo fatto molta strada per trovarvi -, aggiunse il capo della Valle del Sentimento, – dovete tornare con noi, siamo consapevoli delle vostre ricchezze.

Dopo tanta insistenza, Ali e Malibù, diventati inseparabili amici, decisero di ritornare ognuno al suo villaggio, obbligando tutte le persone coinvolte nella ricerca a ripetere cantando:  “Andiam, andiam… a far lavorar il cervello nella giusta direzion!”

Si formò una lunga e ordinata fila indiana, accompagnata da fuochi d’artificio, provocati dal mutare del giorno e della notte, e dall’armonioso suono della tromba.

Ritornarono tutti insieme al villaggio, dove visi bianchi, gialli e neri,  finalmente erano uniti, ognuno nelle loro diversità.   

“Il verde prato della speranza” di Monica Barzaghi | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Vorrei restare qui su questo filo d’erba sospeso per tutta la vita, accarezzare con le mie zampine questo tracciato verde smeraldo, non voglio volare via, è come se questo posto in qualche modo mi appartenesse, come se fosse in qualche modo collegato a me, sento le mie zampine sprofondare nel filo d’erba che c’è qui sotto, siamo una cosa sola, una casa sola.

Una folata di vento e ondeggio come su di un’altalena, le mie antenne si alzano per la gioia. Da quassù osservo tutti i bellissimi fiori di questo campo, sono tulipani per l’esattezza, tutti di diversi colori, gialli, rossi, rosa, blu, bianchi e neri. Anche io ho dei bellissimi colori, sono stata creata bicolore, sono rossa con i puntini neri. Alle volte mi domando perché sono nata così, il mio aspetto è un po’ buffo se ci pensate.

In natura, tutti gli animali cercano di mimetizzarsi, si confondono con il marrone delle cortecce degli alberi o con il verde dell’erba. Pensate che il mio colore preferito è proprio il verde, come vorrei essere verde.

Ma sono rossa con i puntini neri e non lo posso mica cambiare. Mentre sono qui a pensare che, se sono stata creata rossa con i puntini neri, un motivo ci sarà, le mie antenne captano l’arrivo di un umano un po’ bizzarro. Pantaloni larghi, camicia bianca tutta impiastricciata di diversi colori, indossa un cappello

piatto e un po’ floscio. Nella mano destra tiene salda una valigetta e sotto il braccio sinistro

un treppiedi con una tela bianca. Si guarda un po’ in giro, a destra e sinistra, poi posiziona il suo treppiedi e ci appoggia sopra la tela bianca. Apre la sua valigetta, ma da qui non riesco a vedere cosa ci sia dentro.

Spinta dalla curiosità mi avvicino un pochino volando sopra le spighe dell’erba per atterrare proprio lì vicino a lui. Lui mi vede, sorride. Dalla valigetta tira fuori dei tubetti colorati come i tulipani, il rosso, il nero, il verde, il bianco e il blu.

Prende una tavoletta di legno e sopra ci posiziona un pochino di ciascuno colore, poi prende un pennello e inizia la magia, la tela bianca inizia a colorarsi di verde, come il prato in cui siamo. Poi prende un pennellino più piccolo, lo intinge nel nero e inizia a delineare un piccolo ovale su di una foglia, poi prende il rosso e riempie l’ovale, infine riprende il nero e disegna dei piccoli puntini neri, due antenne e quattro zampine.

-Sono io! – esclamo. Ma lui non mi sente, eppure sorride.

Vorrei tanto ringraziare questo bizzarro signore per avermi messa lì nel quadro. Ma come posso fare?

Pian piano inizio a volare e mi appoggio sulla sua spalla. Che occhi grandi ha questo signore! Mi guarda ancora un po’ e poi avvicina il suo indice al mio muso.

-Piacere – dico, mentre salgo sulla sua unghia liscia e sporca di terra.

– Mi chiamo Alma, tu come ti chiami?-

Lui non sembra capirmi, ma continua a guardarmi mentre continuo a camminare sulla sua mano, una mano molto grande e deve essere anche forte, ma con me sopra sembra così delicata, si muove lentamente come se mi stesse facendo una carezza. Cammino un po’ sul dorso della sua mano, poi nell’interno della mano, piccole venature mi ricordano i tracciati dei campi coltivati, ogni tanto saltello su delle piccole gobbe alla base delle dita.

– Lavori nei campi? – gli chiedo.

Lentamente la mano scende vicino all’erba su cui mi ero appoggiata prima.

-Va bene, ho capito, scendo – mi rimetto sul mio filo d’erba.

Lui si siede di fronte a me e mi guarda ancora, poi pian piano vedo che una piccola goccia d’acqua gli scende dall’occhio, formando una riga bianca sul viso sporco di polvere nera. Guarda il cielo e il sole e in tutta fretta si rialza, asciugandosi gli occhi, prende i colori e li mette nella valigetta, smonta la tela e in meno di un minuto è già pronto per ripartire. Con passo svelto lo vedo allontanarsi nel campo verso il bosco, fino a sparire.

All’improvviso mi sento molto triste, cosa aveva quell’uomo? Fino a un attimo prima sembrava così felice. Come vorrei potergli dire che non si deve preoccupare di nulla, che io sono una coccinella magica e che porto fortuna. Ma lui non mi capisce, io non parlo la sua lingua.

Con pazienza aspetto che lui ritorni, finché un giorno eccolo lì , arriva con passo svelto, ancora abbracciato ad una tela, ancora bianca, è una nuova tela. Rimette tutto al suo posto e poi si guarda in giro.

-Sono qui!- dico.

Lui si gira e mi vede, è sorpreso.

– Sei ancora qui?- dice. – è strano che tu sia ancora qui.-

-Aspettavo te- rispondo.

Avvicina di nuovo la sua mano, io ci salgo sopra e mi fermo.

-Sono in posa!- cerco di comunicargli.

Questa volta lui mi capisce e sulla tela inizia a disegnare la sua mano con me sopra.

Appena finisce di dipingere con le mie zampine mi tuffo nella tinta verde e poi volo verso un angolino della tela.

-Ti ho scritto “Grazie”-

Lui mi guarda, le sue sopracciglia formano dei grandi archi sopra gli occhi, la sua bocca è spalancata.

-Ehi tu! Chi ti ha detto di oziare! Torna subito a lavorare!-

Dal bosco a passo svelto arriva un omone con la faccia tutta tirata, inizio a tremare come le foglie.

-Cosa stai facendo? Non c’è tempo per queste cose!- dice mentre prende la tela e la rompe a metà buttandola in terra con me sopra. Rimbalzo e finisco a pancia in su sulla tavola dei colori.

-Aiuto! Aiuto! Non riesco a girarmi – urlo a più non posso.

L’omone ha preso per un braccio il mio bizzarro amico, gli sta facendo male e io non posso farci niente, come vorrei avere un briciolo in più di forza. Il mio amico però è forzuto e con una mossa di karate riesce a liberarsi dall’omone. Corre verso di me e con delicatezza mi tende il dito, io mi aggrappo e torno di nuovo sulle mie zampette, le mie ali però sono tutte impiastricciate di pittura.

-Che disastro!- esclamo.

L’omone però non si dà per vinta, ci raggiunge e urla in faccia al mio amico

– Se vuoi che ti paghi devi lavorare, brutto pezzo informe! Ora torna subito nei campi o te ne

pentirai!-

Il mio amico si gira, mi guarda, i suoi occhi sono lucidi, cerca di asciugarli con la manica della camicia e poi svanisce inghiottito di nuovo dall’oscurità del bosco lì a fianco.

-Uff, come faccio ora – mi guardo il dorso – Sono diventata verde! Ma… non sono per niente

felice! Mi manca il mio amico e non posso più volare, come posso fare?-

Mentre rifletto su quanto successo, cammino verso il bosco.

Arriva sera e poi mattina, finalmente raggiungo il campo dove lavora il mio amico. Chissà se riesce a riconoscermi ancora, mascherata in questo modo, mi domando. Pian piano mi avvicino al suo piede e ci salgo sopra. Lui all’improvviso mi vede, ricompaiono gli archi grandi sopra i suoi occhi. Una goccia di acqua gli cade dal viso e io mi ci tuffo sotto.

-Finalmente una doccia!- esclamo contenta.

Lui ride. Pian piano il colore verde svanisce, ritorno quella che ero, ora sono felice, perché sono con lui e anche lui è felice. Mi tende il dito, ci salgo sopra, poi mi appoggia sulla sua spalla e inizia a camminare dalla

parte del campo da dove sono arrivata, cammina svelto, sta quasi correndo, sì stiamo correndo a più non posso! Le nostre risate si confondono con il rumore del vento arriviamo nel campo, lo superiamo fino ad arrivare in un piccolo paesino con tante case. Stanchi ci sediamo su di un gradino, vicino a un vecchio muro tutto pieno di crepe. Dalle tasche il mio amico tira fuori un tubetto di colore verde, con le dita inizia a disegnare sul muro un meraviglioso prato, sembra lo stesso in cui abitavamo prima. Con delicatezza poi mi appoggia lì sopra, sospira e sorride. Lentamente si gira, dietro di lui c’è una bambina con la mamma che osservano il quadro appena dipinto.

-Stupendo, ma mancano i fiori- dice la signora.

– Signora, vorrei disegnare i tulipani, ma non ho i soldi per poter comprare altri colori per finirlo, quelli che avevo, li ho persi –

– Non c’è bisogno di partire con tutti i colori per disegnare dei fiori. Ad esempio, potrebbe iniziare dai girasoli, sono i fiori preferiti di mia figlia e le basta comprare solo il giallo e il nero.

Domani, venga da me in via Verdi 42, alla panetteria Il Forno, le insegnerò a fare il pane così da avere i soldi per poter finire il suo magnifico quadro –

-La ringrazio signora, come si chiama? –

-Mi chiamo Speranza e questa è mia figlia Alma

– Piacere, io mi chiamo Vincent-

“Le Voci Silenti” di Tiziana Calamunci | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Vivo ai margini della società e non è solo un modo di dire, il mio. Mi  ricavo dei cantucci negli angoli più acuti e nascosti delle città che soventemente vado a trovare. Sono anfratti impervi da scoraggiare la presenza di chiunque sia provvisto di buon senso.

Non che sia sempre stato così. Io provengo da una stimatissima famiglia di avvocati, lo era prima ancora che nascessi il mio bisnonno, il nonno, mio padre fino ad arrivare al sottoscritto.

Insieme al latte materno ho succhiato il mio avvenire, sono cresciuto, coccolato, trastullato amato, ben sapendo di avere la strada tracciata. Questo non mi  ha mai creato nessun problema, anzi!

Mentre la maggior parte dei miei amici era alla ricerca di un impiego che li caratterizzasse, io facevo già praticantato sul campo ancora prima di aver terminato le scuole superiori. Le astuzie le si assorbono respirandole direttamente dai grandi capi. Questo mi sono sentito ripetere da quando le parole hanno cominciato ad avere senso per me. Il mio vecchio non è secondo a nessuno nel fatto di saper voltare a proprio vantaggio qualsiasi situazione.

Si impara dai migliori.

Le mie giornate si svolgono attorno alla piazza di turno, cerco di raccattare qualcosa

Dall’ immondizia, il giorno del mercato rionale è il più favorevole, non si ha idea di quanta merce riesca a racimolare. È talmente tanta che il più delle volte finisco per barattarla con qualche viaggiatore sventurato come me, in cambio, oltre al cibo, mi è capitato di ricevere degli utensili.

Come il cucchiaio che mi porto  sempre appresso. Mi è utile nei momenti di magra  per poter dosare i viveri. Non più di tre bocconi quando si è in sovrabbondanza e non meno di uno in periodi di calo. Tenersi in salute è la regola principale se si vuole sopravvivere in giro.

Di come sia potuto passare da uno stato di privilegi a uno di  grandi privazioni, sinceramente non riesco a capacitarmene.

In realtà è stato un processo lento, con le mie stesse mani mi sono saldato addosso la cottiglia di metallo. Anello per anello con precisione maniacale.

Non potevo  concedermi di perdere, nessuno della nostra stirpe lo ha mai permesso.

Così non c’era sentenza che poteva tenere, (con l’ ultimo intrallazzo poi non è stato

particolarmente difficile), da quelle giuste a quelle dubbie. Ho pagato ingenti quattrini per potermele accaparrare, con il risultato di contribuire a riempire  il mondo di feccia, scarti umani: menzogneri, truffatori, corrotti, solo per citarne alcuni.

Non mi sono mai sentito in colpa per questo se proprio ci tenete a saperlo.

Non era affar mio, io mi limitavo a svolgere in positivo il mio lavoro, poi come lo avrebbero gestito gli altri non mi riguardava.

Intanto mi godevo gli innumerevoli privilegi, avevo sempre un posto di quelli più esclusivi, durante

le grandi prime teatrali, se non il tavolo migliore da Lumie`, il ristorante più stellato della Regione.

CLIC il rumore metallico si rinsaldava. CLIC la mia prigionia si sigillava. CLIC le mie ansie represse si ripresentavano. CLIC la mia voce da balbuziente era ricomparsa, non si vedeva dai tempi delle terapie da adolescente.

“Figliolo è  arrivato il momento che mi ritiri. Non ho più nulla da trasmetterti. Ora che sei diventato come me”.  CLIC CLIC CLIC, la doppia mandata era scattata.

Si è fatta sera, è meglio che mi ritiri nel mio quadratino di casa prima che qualcun altro me lo soffi.

Ho fatto fatica a recuperare i nuovi cartoni. Mi sono recato prima che arrivasse l’addetto alla nettezza urbana, a prendere i grandi imballaggi fuori dal gigantesco centro dell’arredamento. Non si ha idea di come siano protette le cucine e gli elettrodomestici. Per evitare graffi  e sfregi si sono inventati ogni tipo di copertura, per quelli che rimangono, seppur costosi, oggetti.

A volte mi capita di essere fortunato e di trovarci impresso sopra un’immagine di gente felice. Il tavolo apparecchiato con una bella tovaglia a quadretti rossa. Spesso  si tratta della prima colazione. Mi sembra di sentire il profumo del caffè appena tostato gorgogliante. Il tostapane che scatta, donandoti una fetta dorata da ambo i lati pronta ad accogliere la marmellata di frutti di bosco.

Faccio sogni d`oro in un’ambientazione simile .

Mi ero ammalato, mi facevo sostituire spesso e volentieri durante le udienze o disertavo le regolari cene familiari, avallando scuse miserabili. I migliori specialisti erano al mio servizio.

Una notte, mentre la morsa si fece più stretta, uscii per la via, percorsi il grande viale alberato che tutti i giorni mi si parava davanti agli occhi. Mi accolsero le danzanti fronde dei platani a mo’ di saluto, mossi da una leggera brezza impertinente.

A quell’ora apparivano scure minacciose come il mio animo. Vagai per ore, me ne accorsi per il leggero tepore del sole primaverile ormai alto e per la morsa della fame che mi pugnalava lo stomaco.

Non me ne fregava più nulla di me, di quello che pensava la gente che mi stava intorno. Luridi  parassiti mangiatori a tradimento. Con chi non riuscivo ad avere livore era con mio padre, lui mi aveva instillato il tarlo.

Difficile da estirpare, vecchio di secoli. La riconoscenza consanguinea.

Passai in questo stadio di tedio per svariati giorni. Iniziai a puzzare, di un puzzo nuovo, rancido, vischioso, insalubre. Talmente radicato  internamente, come le radici di una pianta.

Non potevi eliminarlo con il sapone nemmeno se si fosse arrivati al punto di scorticarsi. No! Aveva trovato terreno fertile già da tempo, si era semplicemente ben assestato.

In quei momenti non posso nascondere di aver toccato il fondo. È come se avessi messo in pratica tutto il marciume che avevo appreso solo teoricamente. Ho rubato, mi sono ubriacato, ho distrutto me stesso e non solo.

“Attento!”,  non feci in tempo a scansarmi che mi trovai a terra calpestato più  e più volte da piedi veloci.

“Mi dispiace avrei voluto evitarle questo, ma non ho fatto in tempo ad avvisarla. Lasci che l’ aiuti ad alzarsi”

“Non ne ho bisogno!”

Mi accorsi con orrore di non riuscire a stare in piedi e malgrado mi ritirassi come un riccio, non volevo che mi stesse troppo vicino, fui costretto ad assecondarla e farmi condurre docilmente nel suo rifugio. Una casa accoglienza, un po’ fatiscente per la verità ,gestita da tre donne ma data in autogestione agli ospiti.

La casetta era su due piani, a parte il salone all’ entrata, un locale molto spazioso, il resto degli spazi  adibiti a dormitori erano piuttosto piccoli proprio per poter dare più intimità possibile a più individui.

Internamente, dovetti ammettere che non era male a dispetto dell’ esterno.

Fui immediatamente disteso sul divano e arrivò un medico, uno di quelli disposti a sorvolare sulla parcella con chi non era abbiente e a farsi pagare con una buona fondina di minestra.

Stavolta avrebbe potuto essere retribuito e anche bene, peccato che  preso dalla  furia del momento non avessi tirato su niente.

Mi resi conto di essere miserabile, certo sarei potuto ritornare indietro, ma con che faccia?!!  Non ne avevo voglia al momento.

Nel frattempo osservavo ero incuriosito e poi, non potevo fare altrimenti, avevo rotto la caviglia destra. Omettendo la verità a me stesso, volevo capire e l’ unico modo possibile era stare con gente diversa.

Le etnie erano molteplici, di conseguenza: i cibi, gli aromi, i dosaggi, i saluti, i linguaggi, le preghiere, le meditazioni. Ognuno ci metteva del suo.

Non mi trovavo bene, ero in continuo disagio.

Essendo numerosi capitava di dover fare fronte  a delle piccole o grandi difficoltà quotidiane. Ed ecco spuntare il falegname pakistano, il costruttore di dighe africano, il muratore indiano, l’idraulico cingalese, il panificatore egiziano, e l’ italiano… per l’appunto che cosa potevo dare di concreto, se non le parole?

Così, senza rendermene conto, smisi un poco di emanare fetore. Iniziai ad aiutare, appena mi rimisi in moto. Imparai a riparare le biciclette, a smontare una cucina, a mettere su un quadro senza bucare un tubo dell`acqua, persino a preparare l’arrosto al forno  con le patate croccanti.

Ogni giorno mi ripromettevo che sarebbe stato l`ultimo, in realtà rimandavo di continuo. Mi piaceva starci, per la prima volta sentii la stretta  allentarsi, cominciavo a respirare, ad assaporare la vita come essere e non in virtù di quello che rappresentavo.

Imparai a ridere e a scherzare e mi sorpresi non poco di esserne capace. Nello stesso tempo mi capitava di tornare alla vita all`aperto, sentivo che ne avevo bisogno per riossigenarmi.

Ed è proprio al rientro di una di queste fughe in solitaria che la vidi. Se ne stava  rannicchiata sul divano consunto e rattoppato da tessuti diversi, era la rappresentazione fisica della casa, la mescolanza che crea un tutt’ uno.

“Dobbiamo andarcene da qui”, disse con le mani che coprivano il volto.

“come, scusa?”,  feci fatica a nascondere la balbuzie.

“Tra due giorni dovevamo recarci dal giudice per redigere l’atto notarile che avrebbe sancito definitivamente, dopo vent’ anni ,l’ avvenuto usucapione a nostro favore.

Al proprietario non è mai importato nulla, anzi era un peso per lui, perché questo voltagabbana? Perché vuole riprenderselo?

Lo sconforto nell’ aria era una nebbia palpabile .

Eppure sentivo che qualcosa  mi era sfuggito, quella via, in quel luogo mi ci ero portato, sì: portato.

Mi costò fatica, ma lo dovevo fare. Ritornai da mio padre. Fuori ero leggero, dentro ero un macigno.

Mi ricordavo tutto, di quell’ edificio, di come mi impuntai per riprendercelo, sarebbe diventata un’ efficiente stazione di servizio dalla posizione strategica. Di come potevamo ricavarci un sicuro profitto. Era solo un puntino su una cartina, prima. Mio padre accettò di liberarsene solo per il fatto che con il pacchetto me ne sarei andato anch’ io.

Oggi è l’ abitazione di tutti ed io vi ho scoperto la mia mansione: dare voce a chi non ce l’ ha. Non sempre mi trovate lì, spesso sono alla casa che respira, come definisco l’ aria aperta.

Lì sono veramente libero.

“Fili Volanti” di Alessandra Visconti | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

La lenza era stata lanciata lontano.

Trasportata dalla corrente il mulinello correva veloce…zac!

Il filo con un rumore secco si era staccato. L’avevano visto volteggiare leggero in aria e poi più niente.

Sulla spiaggia di un’isola non troppo lontana qualcosa di luminoso brillava al sole.

“Lascialo stare!” gridò la mamma  “ E’ solo un’ amo ed è anche arrugginito! Se non la smettono di pescare, qui sta diventando tutto sporco e pericoloso”, diceva la mamma allontanando il suo bambino.

Ma quello che per uno è uno scarto, per un altro può essere l’inizio di un nuovo gioco.

E così tra un filo e un rametto nacque un sodalizio, e un papà assieme al figlio costruirono una canna da pesca e con un pezzetto di pane all’amo qualche pesciolino aveva anche abboccato.

Come in  ogni gioco che rispetti il bambino si stancò presto e  così quel filo e il rametto vennero lasciati adagiati sullo scoglio. Il filo però era destinato a trasformarsi.

Intrecciato ad altri filli di colori diversi, diventò un portachiavi. E girò in un lungo e in largo l’Isola attaccato alla chiave del motorino. Aria fresca, sole cocente. Serate in riva al mare, qualche timido battito di cuore, cenno di un piccolissimo amore appena nato. E poi, sciolto ogni legame, il filo tornò a ad essere libero. Servì per aggiustare uno strumento.

Tirato alla perfezione cominciò a vibrare o meglio a suonare.

E suonando suonando incontrò o’ marranzano.

Divennero amici per le note,  al chiaro di luna nei racconti d’estate s’incontravano per suonare nuove musiche fuse come il formaggio negli arancini, divini!

Quel filo che un giorno per sbaglio era partito da un luogo caldo e lontano, volando leggero sul mare quasi fosse invisibile, era atterrato in una terra calda e brulla ma molto accogliente.

E lì aveva scoperto che un filo può essere molto di più di quello che pensava. Aveva capito di essere speciale.

Ad un aquilone che non riusciva a volare si prestò volentieri.

Se alzo gli occhi  ancora oggi li vedo in alto nel cielo leggeri, volteggiare.

MAC… CHE SORPRESA!-UN RACCONTO DI ROBERTA

“Non soffocare la tua ispirazione e la tua immaginazione, non diventare lo schiavo del tuo modello”- Vincent Van Gogh

I nostri corsisti di scrittura creativa, guidati da Ivil Iomy, entrano in contatto con la propria immaginazione armati di carta e penna dando vita a nuovi racconti. Come quello che ti presentiamo oggi, scritto da Roberta Corti dal titolo “Mac…che sorpresa!”. Siediti comodo e lasciati trasportare dalla sua storia.

MAC…CHE SORPRESA!

Ci eravamo dati appuntamento da Mac Donald per le 19.30 per un panino veloce prima di rientrare a casa. Mi guardai in giro, ma non lo vidi. Di solito il mio amico sedeva sul tavolone con i videogiochi incorporati nel piano, un po’ perché, nonostante l’età, amava ancora i videogiochi e un po’ perché detestava le altre postazioni. Diceva che i tavoloni con gli sgabelli alti gli davano un senso di “appollaiato”. Non ho mai capito cosa volesse dire con questa frase, ma Paolo era un tipo originale. Tanto originale da non volersi sedere neppure sui tavoli per quattro persone con le panche contrapposte perché diceva che gli sembrava di essere in treno.

Non riuscivo proprio a vedere Paolo all’interno del locale. Feci passare tutti i totem digitali dove si poteva scegliere il menù e pagare, ma non era neppure lì. Mi guardai ancora in giro e alla fine eccolo di spalle al bancone della caffetteria con un improbabile cappello di pelo che gli copriva anche le orecchie nonostante la temperatura della giornata fosse mite.

Paolo stava chiacchierando con la cameriera e dalla coda che si era formata dedussi che era un po’ che la stava intrattenendo. La ragazza puntava, quasi ipnotizzata, i suoi occhi scuri e brillanti verso gli occhi del mio amico che, dall’alto dei suoi quasi due metri di altezza, dominava la scena. Mi avvicinai per cercare di velocizzare l’ordinazione di Paolo e per distoglierlo da qualsiasi discorso avesse cominciato, anche se già immaginavo di cosa stesse dissertando.

“Sogno un futuro in cui gli uomini possano vivere in armonia con la natura,” stava recitando Paolo mentre disegnava un ampio cerchio con le braccia, “questo non è solo il principio su cui il WWF fonda la sua attività, ma anche il mio”.

Guardai sempre più preoccupata la fila delle persone in attesa del loro caffè, ma stranamente non notai segni di impazienza. La ragazza e il ragazzo proprio dietro Paolo stavano flirtando, sussurrandosi chissà quali dolci parole. Un anziano guardava divertito un bimbo che si era sporcato la bocca con il ketchup facendolo sembrare un piccolo pagliaccio. Seguiva una signora che lanciava occhiate interminabili e vogliose alla vetrinetta con brioche e torte.
Ci risiamo. Paolo sta facendo la solita magia: quando parla con quella sua voce profonda e calma è come se l’armonia della natura si riversi anche nelle persone che gli stanno accanto.

Non riuscivo, però, a decifrare cosa aveva in animo la cameriera: non aveva ancora proferito una parola, le guance erano di un rosso acceso e le mani le tremavano a tal punto che, nel tentativo di decorare la panna montata di un caffè, rovesciò sul bancone una quantità esagerata di smarties che rotolarono fino a terra.
Il mio amico, incurante di tutto e di tutti, la guardò divertito e disse: “Ma che bella cascata di colori, sembra che la primavera si stia spingendo anche qui grazie a questi fantastici dischetti colorati di cioccolato e zucchero”. Poi si bloccò a fissare qualcosa che aveva attirato la sua attenzione ad un lato del bancone ed esclamò: “No, non ci credo questo deve essere un segno del destino: le Cioccorane! Io adoro questi cioccolatini a forma di rana. Entrando, ho notato che questa è la settimana dedicata ad Harry Potter. Lo so che gadget vari e dolcetti sono tutti a tema, ma mai e poi mai avrei pensato di trovare le Cioccorane”. Senza quasi pendere fiato, continuò: “Io trovo rane e rospi creature fantastiche. Lo sai che sono un volontario per il salvataggio dei rospi? E oramai ci siamo, è la stagione in cui i rospi si spostano dal bosco per andare verso l’acqua a deporre le uova. Alla sera al calar del sole…”

Mi aspettavo che da un momento all’altro la ragazza avrebbe chiamato il responsabile per far buttar fuori Paolo o forse che lei stessa lo avrebbe cacciato e colpito con il primo arnese da bar che le fosse capitato a tiro. La cameriera cominciò ad agitare le mani come in cerca di qualcosa, poi aprì un cassetto e ne estrasse uno spillone di legno per capelli.  Io cominciai a sudare freddo e, mentre già vedovo nella mia mente una scena di sangue, guardai meglio l’oggetto e con mia grande sorpresa vidi che sull’estremità opposta alla punta aveva intagliato… un rospo! La ragazza alzò lo spillone, se lo sistemò tra i capelli, si tolse il camice da barista e con inaspettata agilità scavalcò il bancone. Con camminata decisa si avvicinò al mio amico, lo guardò negli occhi e, indicando la sua stessa maglietta rosa con un panda e la scritta WWF, finalmente parlò: “Io e te ora andiamo a salvare il mondo e renderlo migliore”.
Allungò il braccio, prese Paolo per mano e se lo portò via verso una notte di primavera in cui uomini e animali non erano forse così diversi.

Io, che ero rimasta a seguire tutta la scena praticamente in apnea, feci un respiro profondo e cercai di tornare in me, indecisa se arrabbiarmi per essere stata mollata così su due piedi o gioire per la nuova conquista fatta del mio amico. Decisi di risolvere la situazione affogandomi in una cioccolata calda con panna e una bella fetta di torta Sacher. Non è forse risaputo che il cacao è un toccasana per l’umore tanto da essere definito “l’ormone della felicità?”

Mi avvicinai al bancone e ordinai. Il sorriso ampio e accattivante del nuovo barman contribuì a farmi tornare il buon umore. Di una cosa ero sicura: avrei ricordato quella serata strampalata per molto tempo e avrei avuto un simpatico aneddoto da raccontare agli amici nelle future serate da Mac.

E tu cosa aspetti? Non vorrai tener per te tutte le belle storie che hai da raccontare?
Sono aperte le iscrizioni per i corsi di fumetto e di scrittura creativa
Per maggiori info visita le pagine dedicate:

SUPEREROI CREATIVI  
LA FABBRICA DELLE STORIE

FUMETTO DI GIOIA

“I fumetti sono le favole per gli adulti”– così diceva Stan Lee, e chi li scrive e li crea lo sa bene!
I nostri ragazzi iscritti al corso di fumetto, tenuto da Ivil, tutte le settimane danno vita e forma alle proprie storie unendo parole e immagini. Ve ne diamo un assaggio mostrandovi uno dei lavori di Gioia, giovanissima corsista.

E tu? Ti piacerebbe imparare a raccontare le tue storie attraverso un fumetto?
Cosa aspetti? Sono aperte le iscrizioni per i corsi di fumetto e di scrittura creativa
Per maggiori info visita le pagine dedicate:

SUPEREROI CREATIVI  
LA FABBRICA DELLE STORIE

 

12