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“Le Cinque Dita” di Carlo Vitale | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Questa è la storia di una famiglia, una famiglia strana. In questa famiglia tutti hanno due orecchie, due occhi, due gambe, due braccia, due mani e…  dieci dita, sia alle mani sia ai piedi. Cosa c’è di strano?

Bè, dovete sapere che in questo mondo tutti hanno invece otto dita, camminano lentamente, non si danno mai la mano quando si salutano, perché lo fanno solo da lontano. In fondo a cosa serve salutare se nessuno vuole conoscerti?

Un giorno questa strana famiglia, ah…Dimenticavo i loro nomi! Il padre si chiama Davide, la madre Rebecca, i figli Gioele e Miriam. Dicevo… questa famiglia aveva un cognome strano, Hugh. Ebbene, dicevo, questa famiglia arrivò in un villaggio sul mare, e gli abitanti alzarono lo sguardo su di loro con curiosità e diffidenza, ma poi ripresero la loro vita , come se nulla fosse successo. Il padre, Davide, che sapeva fare i conti, trovò lavoro in un ufficio del porto; la madre, Rebecca, che era una insegnante, andò a lavorare nella scuola dei figli dei pescatori; i due ragazzi, Gioele e Miriam, furono messi in classe insieme, anche se avevano un anno di differenza. In questo villaggio le persone indossavano i guanti tutto il giorno,  e le loro scarpe erano molto larghe. Gli Hugh non capivano perché, ma si adeguarono e, per non destare sospetti, legarono l’ultimo dito del guanto all’anulare, cosicché nessuno poteva vedere che avevano cinque dita; indossarono anche scarpe molto larghe.

Un giorno, mentre Gioele e Miriam erano a scuola accadde il fattaccio: Gioele  era nel salone della mensa scolastica e, per mangiare meglio una mela, si tolse il guanto. I compagni di classe, che videro tutto ciò, si spaventarono, alcuni piangevano, insomma un caos totale! Il giorno dopo il sindaco e il preside della scuola convocarono la famiglia Hugh, e dissero loro: “Dovete andare via subito, è uno scandalo! Voi non siete “normali!”. Gli Hugh ascoltarono tutto senza dire nulla, anzi a tratti sorrisero e questo irritò le autorità presenti che decisero di cacciarli dal villaggio. Loro fecero fagotto e andarono sul molo per prendere il battello, ma ad un tratto sentirono un grido: “Aiuto! Aiuto!”, una bambina era caduta in acqua. Davide si tuffò per raggiungere la piccola, ma si era incastrata negli scogli. Rebecca allungò la mano per aiutarli, Davide e Miriam li raggiunsero e, tirando tutti insieme, riuscirono a salvarla. Tutti gli abitanti del villaggio accorsero al molo e quando seppero cosa avevano fatto gli Hugh si inchinarono e chiesero scusa, volevano abbracciarli ma non sapevano come fare, allora si tolsero i guanti e accadde un fatto straordinario: alle loro mani si era aggiunto un altro dito! Allora corsero dagli Hugh e poterono finalmente abbracciarli, e furono tutti felici come non lo erano mai stati nella loro vita. La crescita del quinto dito aggiunse un pezzo di cuore in loro e un nuovo vocabolo nel loro dizionario: Empatia. Che poi, da quel giorno, è diventato il nome del villaggio. 

“Leon” di Michela Malimpensa | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Questa è la storia di Leon, un mago di strada, un prestigiatore audace, un uomo senza tempo, un uomo del cambiamento.

Leon posava a terra il suo cappello straccio e la gente attorno a lui, entusiasta per i suoi numeri di magia, alla fine di ogni esibizione lo riempiva di monete.

Leon era colmo di gratitudine.

Raccoglieva il suo cappello, faceva un elegante inchino, spegneva la musica che usava per impreziosire l’aria e cominciava a riordinare i suoi arnesi.

Leon attraversava a piedi un’infinità di piccoli paesi, nel Mondo di Maipiù, con lui l’inseparabile Lumière, il suo fedele cagnolino, un sacco a pelo, e un enorme zaino pieno zeppo dei suoi attrezzi da mago.

Non gli serviva nient’altro.

Non riuscivi a dare un età a Leon, quando sorrideva aveva lo sguardo vispo di bambino, quando era assorto a guardare il cielo, potevi dargli cent’anni e anche più.

Leon dormiva dove capitava, ma i suoi luoghi preferiti erano i campi di lavanda, nel mese di giugno. Stanco ma spensierato, vi si stendeva con il suo sacco a pelo, tra le labbra uno stelo di quei minuscoli profumatissimi fiorellini viola, accarezzava il fedele cagnolino e guardava il cielo stellato. Sì perché per Leon la magia esisteva davvero, bastava solo osservare più attentamente i doni della natura. Non si poteva dubitare della sua esistenza finché esistevano i fiori, il vento, l’arcobaleno con i suoi allegri colori, la luna e le amate stelle.

Ma un giorno la sua vita cambiò all’improvviso. Il piccolo Mondo di Maipiù era in pericolo, la gente scappava perché alla morte dell’anziano e buon sovrano ne era subentrato uno molto maligno che aveva invertito tutte le regole:

MaiPiù tristezza, era diventata MaiPiù allegria.

MaiPiù carestia, era diventata MaiPiù cibo in quantità.

MaiPiù terrore, era diventata MaiPiù serenità.

MaiPiù guerra, era diventata MaiPiù pace.

Fu così che, in breve tempo, tutti dovettero scappare, e lasciare il loro amato Mondo di Maipiù.

Leon non si lasciò abbattere, d’altra parte il coraggio era insito nel suo nome. Raccolse le sue poche cose, e camminò a lungo per cercare un altro mondo dove vivere.

Prese anche ogni mezzo di trasporto possibile: barche, aerei, astronavi, razzi spaziali.

E alla fine sbarcò in un luogo che gli sembrò magico. Era magico perché gli ricordava il suo mondo: distese di campi fioriti, paesi allegri e pieni di case colorate, giornate tiepide di sole e vento. Finché non incontrò gli abitanti di quel posto.

Ad ogni suo cenno di saluto si voltavano dall’altra parte. Peggio ancora cambiavano strada se lo vedevano in lontananza. Nessuno voleva dargli alloggio, accampavano le scuse più assurde: che la locanda era piena, che stavano per chiudere, che l’affitto da pagare era molto alto. Spesso veniva deriso, lo guardavano camminare per le vie e poi ridacchiavano alle sue spalle additandolo come fosse un essere ridicolo, da prendere in giro.

Ma c’era anche chi gli diceva chiaramente in faccia che posto per lui non ce n’era, perché già erano in tanti loro, ci mancava un altro da sfamare, per di più straniero.

Leon, che viveva dei suoi spettacoli per strada, non ebbe neppure il coraggio di provarci a fare le sue esibizioni in quel luogo. Cominciò ad avere paura di poter essere scacciato malamente perché la cattiveria lì si respirava nell’aria, temeva di rimetterci la vita.

E così finì presto i suoi risparmi.

Cominciò a sentirsi sempre più triste, trascorreva il tempo pensando ai luoghi della sua terra, al mondo dove viveva, il Mondo di MaiPiù. Perché non importa quanta strada fai, il cuore è sempre con te, insieme a tutto ciò che gelosamente custodisce.

Pensò alle persone a lui care, a tutti quelli che aveva incontrato durante il suo girovagare per le piazze dei paesi, a quei pochi scambi di parole che però  sapevano scaldare il cuore. Pensò ai bambini, al loro vociare forte prima dell’inizio del suo spettacolo, e poi, proprio come per magia, si azzittivano tutti quanti, e i loro sguardi si facevano curiosi e vivaci nell’attesa dell’esibizione.

A Leon piaceva stupire, per lui non c’era nulla di più bello di suscitare meraviglia, sorpresa, incanto,  eccitazione e, perché no, anche una sorta di  evasione.

Ne aveva inventati tanti di numeri di prestigio, di ogni tipo. Gli veniva un’idea, e la strofinava finché non diventava magia.

Un giorno, verso il tramonto, stava attraversando un piccolo paese sempre insieme al suo fidato Lumière. Visto che non c’era nessuno in giro per le strade a quell’ora, decise di fermarsi nella piazzetta per far bere il cagnolino dalla fontanella di un lavatoio.

Tolse lo zaino dalle spalle ma nel poggiarlo per terra si rovesciò, e ne uscì il mazzo di carte con il quale faceva uno dei suoi numeri di prestigio.

Lumière, che in quei giorni era diventato apatico come il suo padrone, alla vista delle carte cominciò a scodinzolare e a girare attorno a Leon come a volerlo pregare di provare a fare il suo numero.

Leon raccolse le carte, guardò il suo cagnolino e sorrise. “E va bene Lumière, visto che non c’è nessuno proviamo a vedere se sono ancora capace di fare magie!” e scoppiò a ridere.

Era tanto che non succedeva.

Si sentiva tranquillo perché non c’era gente e quindi non aveva paura di essere schernito o cacciato via. Era una buona occasione per esercitarsi un po’, in attesa di tempi migliori.

Così, con Lumière come unico spettatore, cominciò a divertirsi e a far apparire e sparire le carte tra le sue mani. Era talmente assorto nella sua magia che non si accorse che il suo cagnolino in realtà non era l’unico spettatore. Un bambino lo aveva visto dalla finestra della sua casa ed era sceso nella piazza per osservarlo meglio. Poi ne arrivò un altro e un altro ancora. Intanto Leon si era messo a provare anche altri dei suoi numeri di prestigio, aiutato da un intraprendente e allegro Lumière.

In pochi minuti tutta la piazzetta era colma di bambini, la magia la si vedeva riflessa nei loro occhi limpidi e puri.

Arrivarono anche gli adulti, i genitori di questi bambini. Prima con aria di sfida, con passi veloci come a volere cacciare via quel mago, ma poi, una volta avvicinatisi di più, si incuriosirono a vedere le magie di Leon, e rimasero senza più parole. Senza più rabbia.

Sarà stato merito dell’illusionismo, della musica che aleggiava nell’aria, del piccolo Lumière che faceva le acrobazie, fatto sta che tutti gli abitanti di quel paesino in poco tempo si radunarono attorno alla piazza a osservare, ridere e a lasciarsi incantare.

Quando Leon terminò le sue esibizioni, ci fu un attimo di silenzio. Lui guardò i bambini, fece un inchino e si fermò. Non aveva il coraggio di posare a terra il cappello per le offerte.

Ma dal cielo arrivò cinguettando un colibrì, tutto colorato, che prese il cappello con il suo becco e lo posò a terra.

Una ragazza si avvicinò a Leon, gli sorrise e pose la prima moneta nel cappello.

Anche gli altri, incitati dai bambini, lasciarono delle monete nel cappello straccio, fino a riempirlo tutto.

La ragazza rimase vicino a Leon e quando la gente stava cominciando ad andare via, gli disse “ Lo sai che il Colibrì è simbolo di speranza? Raccontami da dove vieni.”

Si sedettero vicino al lavatoio e Leon si lasciò andare in un turbinio di emozioni, e tra pianti e risate, raccontò alla ragazza la sua storia.

La ragazza lo ascoltava incantata, e dopo qualche istante di silenzio gli disse: “Vedi Leon, cosa è accaduto stasera? Ognuno può avere un’origine diversa, avere la pelle scura o chiara, arrivare da Marte o dalla Luna, ma ognuno gioisce allo stesso modo. E il fatto che il colibrì sia arrivato proprio da te, quando ne avevi bisogno, è anche quella magia. Questi piccoli uccelli possono volare senza sosta per lunghe distanze. Rappresentano resistenza e resilienza. Proprio come la rappresenti tu, con tutto il cammino che hai fatto. Non ti sei arreso.”

“Stavo per farlo” rispose Leon. “Se non fosse stato per il mio amico Lumière non avrei più realizzato le mie magie. Ma in tutto questo mio vagare, mi sono reso conto che nessun giorno è uguale all’altro. Ogni mattina porta con sé un particolare miracolo, un proprio momento magico. Sta a noi coglierlo. E stasera è avvenuto qualcosa di davvero magico.”

“Cosa farai adesso Leon?” Le chiese la ragazza. “Se non hai un posto dove andare potresti venire alla Casa degli Artisti, dove abito anche io.“

“La speranza del Colibrì è come un tappeto magico, amica mia. Mi ha trasportato dal mio mondo ad un altro, e mi ha aperto a infinite possibilità. Grazie di cuore.”

“Anche grazie è una parola magica sai? Chi la riceve sorride sempre!” esclamò la ragazza, con il viso dipinto di gioia.

E fu così che i due, insieme al piccolo Lumière, si incamminarono verso la Casa degli Artisti. Là dove la diversità era una ricchezza, là dove si riunivano persone da tutto l’universo. Là dove ognuno poteva esprimere il suo talento e farne un’opportunità.

Là dove Leon poté ricucire le sue ferite, con un filo intrecciato di amore, amicizia e magia. Il mondo di Maipiù era sempre nel suo cuore. Perché l’amore viaggia con te, ovunque tu vada.

“Giallo, bianco e nero” di Maria Carla Conti | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Ali abitava nella valle del sentimento, arrivato in questa valle dopo il naufragio, superando le avversità del mare.

Amava suonare la tromba, la sua melodia raggiungeva tutta la valle, si vergognava di essere diverso: aveva un grosso naso, quando russava i vicini si lamentavano ed era faticoso per lui starnutire.

Gli abitanti della valle non lo avevano mai accettato, sia per il colore della pelle che per il grosso naso, era schernito e offeso da tutti, anche dai bimbi

Ali era molto triste, si costruì un capanna nel bosco e così almeno non veniva più deriso per la sua diversità. Suonava il suo strumento in modo magistrale, gli animali del bosco lo attorniavano incantati dalla melodia, gli alberi con i loro rami danzavano leggiadri accompagnati dal leggero venticello. I fiori si mescolavano con i loro colori, le farfalle erano desiderose di volare per prendere sapori e profumi diversi.

Ali era felice nella sua solitudine, attorniato da tanta bellezza, non si sentiva più diverso.

Poco distante dalla dimora di Ali, c’era una piccola tribù di indiani: il capo Piuma Gialla, era in attesa di qualcosa che era già scritto nel tempo, nessuno però ne avrebbe mai immaginato le conseguenze.

– È nata! Senti come strilla, sarà una grande guerriera!

Per giorni nel villaggio ci fu una grande festa. Piuma Gialla fiutava nell’aria qualcosa di strano, si recò nella tenda e con grande stupore si accorse che i capelli della piccola Malibù erano rosso fuoco, emanava una luce cosi intensa che anche il sole dovette indossare gli occhiali per non essere folgorato da questa immensa luce.

Si consultò con il capo tribù e decisero di cucire un cappello di foglie per la bimba, questo cappello non doveva essere tolto sino al raggiungimento del decimo anno di età, e solo a tempo debito l’arcano dei capelli rossi sarebbe stato svelato.

Malibù crebbe velocemente. Un giorno si recò al fiume, sicura di non essere vista da nessuno si tolse il cappello, ma non si accorse che qualcuno la stava spiando.

Ali scoprì questo fiume e nel vedere la ragazzina rimase incantato dalla sua diversità: aveva i capelli talmente rossi che illuminavano il giorno e la notte. Prese la tromba e si mise a suonare, intorno una magia di colori si mischiavano nella natura.

Malibù si avvicinò intimorita, ma anche curiosa per la melodia che risuonava in tutta la valle.

– Ciao, chi sei?

– Sono Malibù, una bimba indiana, costretta dal capo tribù a indossare questo cappello di foglie per la diversità di colore dei miei capelli che illuminano il giorno e la notte, in un contesto magico.

– E tu?

– Io sono Ali, mi sono costruito un capanna nel bosco perché non ero accettato nel mio villaggio, per il mio grosso naso, come vedi, e il colore della mia pelle. Siamo due persone diverse ma ognuno è speciale, appunto per essere diverso, diversi non significa essere sbagliati, è fonte di ricchezza. Solo perché hai la pelle nera, puoi essere aggredito o insultato per la strada, siamo persone invisibili agli occhio della gente, mi fa paura l’ignoranza.

– Siamo diversi, tu per il tuo grosso naso, io per i miei capelli rossi:  il tuo naso ti permette di fiutare i pericoli intorno a te, la tua dote speciale è suonare la tromba, il colore dei miei capelli illumina il giorno e la notte, rendendo visibile ogni particolare, queste sono ricchezze che nessuno mai capirà.

Ali e Malibù si incamminarono insieme in cerca di un riparo ben nascosto, nessuno li avrebbe trovati, ognuno poteva vivere della sua ricchezza senza problemi. La piccola indiana sapeva che questa volta aveva combinato un grosso guaio abbandonando la mamma e la tribù, ma sicura dell’amicizia con Ali il problema si sarebbe risolto.

Penna gialla e tutta la tribù, e pure gli abitanti della valle del sentimento, si misero in cammino alla ricerca degli scomparsi. Ali e Malibù erano consapevoli delle loro ricchezze dell’armonia della musica, il giorno e la notte in un magico connubio di bellezza.

Il suono della tromba, e il mutare dei colori agevolarono le ricerche.

– Fermi! -, disse Penna Gialla, –  non proseguite il cammino, ritornate con noi!

– Abbiamo fatto molta strada per trovarvi -, aggiunse il capo della Valle del Sentimento, – dovete tornare con noi, siamo consapevoli delle vostre ricchezze.

Dopo tanta insistenza, Ali e Malibù, diventati inseparabili amici, decisero di ritornare ognuno al suo villaggio, obbligando tutte le persone coinvolte nella ricerca a ripetere cantando:  “Andiam, andiam… a far lavorar il cervello nella giusta direzion!”

Si formò una lunga e ordinata fila indiana, accompagnata da fuochi d’artificio, provocati dal mutare del giorno e della notte, e dall’armonioso suono della tromba.

Ritornarono tutti insieme al villaggio, dove visi bianchi, gialli e neri,  finalmente erano uniti, ognuno nelle loro diversità.   

“Il verde prato della speranza” di Monica Barzaghi | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Vorrei restare qui su questo filo d’erba sospeso per tutta la vita, accarezzare con le mie zampine questo tracciato verde smeraldo, non voglio volare via, è come se questo posto in qualche modo mi appartenesse, come se fosse in qualche modo collegato a me, sento le mie zampine sprofondare nel filo d’erba che c’è qui sotto, siamo una cosa sola, una casa sola.

Una folata di vento e ondeggio come su di un’altalena, le mie antenne si alzano per la gioia. Da quassù osservo tutti i bellissimi fiori di questo campo, sono tulipani per l’esattezza, tutti di diversi colori, gialli, rossi, rosa, blu, bianchi e neri. Anche io ho dei bellissimi colori, sono stata creata bicolore, sono rossa con i puntini neri. Alle volte mi domando perché sono nata così, il mio aspetto è un po’ buffo se ci pensate.

In natura, tutti gli animali cercano di mimetizzarsi, si confondono con il marrone delle cortecce degli alberi o con il verde dell’erba. Pensate che il mio colore preferito è proprio il verde, come vorrei essere verde.

Ma sono rossa con i puntini neri e non lo posso mica cambiare. Mentre sono qui a pensare che, se sono stata creata rossa con i puntini neri, un motivo ci sarà, le mie antenne captano l’arrivo di un umano un po’ bizzarro. Pantaloni larghi, camicia bianca tutta impiastricciata di diversi colori, indossa un cappello

piatto e un po’ floscio. Nella mano destra tiene salda una valigetta e sotto il braccio sinistro

un treppiedi con una tela bianca. Si guarda un po’ in giro, a destra e sinistra, poi posiziona il suo treppiedi e ci appoggia sopra la tela bianca. Apre la sua valigetta, ma da qui non riesco a vedere cosa ci sia dentro.

Spinta dalla curiosità mi avvicino un pochino volando sopra le spighe dell’erba per atterrare proprio lì vicino a lui. Lui mi vede, sorride. Dalla valigetta tira fuori dei tubetti colorati come i tulipani, il rosso, il nero, il verde, il bianco e il blu.

Prende una tavoletta di legno e sopra ci posiziona un pochino di ciascuno colore, poi prende un pennello e inizia la magia, la tela bianca inizia a colorarsi di verde, come il prato in cui siamo. Poi prende un pennellino più piccolo, lo intinge nel nero e inizia a delineare un piccolo ovale su di una foglia, poi prende il rosso e riempie l’ovale, infine riprende il nero e disegna dei piccoli puntini neri, due antenne e quattro zampine.

-Sono io! – esclamo. Ma lui non mi sente, eppure sorride.

Vorrei tanto ringraziare questo bizzarro signore per avermi messa lì nel quadro. Ma come posso fare?

Pian piano inizio a volare e mi appoggio sulla sua spalla. Che occhi grandi ha questo signore! Mi guarda ancora un po’ e poi avvicina il suo indice al mio muso.

-Piacere – dico, mentre salgo sulla sua unghia liscia e sporca di terra.

– Mi chiamo Alma, tu come ti chiami?-

Lui non sembra capirmi, ma continua a guardarmi mentre continuo a camminare sulla sua mano, una mano molto grande e deve essere anche forte, ma con me sopra sembra così delicata, si muove lentamente come se mi stesse facendo una carezza. Cammino un po’ sul dorso della sua mano, poi nell’interno della mano, piccole venature mi ricordano i tracciati dei campi coltivati, ogni tanto saltello su delle piccole gobbe alla base delle dita.

– Lavori nei campi? – gli chiedo.

Lentamente la mano scende vicino all’erba su cui mi ero appoggiata prima.

-Va bene, ho capito, scendo – mi rimetto sul mio filo d’erba.

Lui si siede di fronte a me e mi guarda ancora, poi pian piano vedo che una piccola goccia d’acqua gli scende dall’occhio, formando una riga bianca sul viso sporco di polvere nera. Guarda il cielo e il sole e in tutta fretta si rialza, asciugandosi gli occhi, prende i colori e li mette nella valigetta, smonta la tela e in meno di un minuto è già pronto per ripartire. Con passo svelto lo vedo allontanarsi nel campo verso il bosco, fino a sparire.

All’improvviso mi sento molto triste, cosa aveva quell’uomo? Fino a un attimo prima sembrava così felice. Come vorrei potergli dire che non si deve preoccupare di nulla, che io sono una coccinella magica e che porto fortuna. Ma lui non mi capisce, io non parlo la sua lingua.

Con pazienza aspetto che lui ritorni, finché un giorno eccolo lì , arriva con passo svelto, ancora abbracciato ad una tela, ancora bianca, è una nuova tela. Rimette tutto al suo posto e poi si guarda in giro.

-Sono qui!- dico.

Lui si gira e mi vede, è sorpreso.

– Sei ancora qui?- dice. – è strano che tu sia ancora qui.-

-Aspettavo te- rispondo.

Avvicina di nuovo la sua mano, io ci salgo sopra e mi fermo.

-Sono in posa!- cerco di comunicargli.

Questa volta lui mi capisce e sulla tela inizia a disegnare la sua mano con me sopra.

Appena finisce di dipingere con le mie zampine mi tuffo nella tinta verde e poi volo verso un angolino della tela.

-Ti ho scritto “Grazie”-

Lui mi guarda, le sue sopracciglia formano dei grandi archi sopra gli occhi, la sua bocca è spalancata.

-Ehi tu! Chi ti ha detto di oziare! Torna subito a lavorare!-

Dal bosco a passo svelto arriva un omone con la faccia tutta tirata, inizio a tremare come le foglie.

-Cosa stai facendo? Non c’è tempo per queste cose!- dice mentre prende la tela e la rompe a metà buttandola in terra con me sopra. Rimbalzo e finisco a pancia in su sulla tavola dei colori.

-Aiuto! Aiuto! Non riesco a girarmi – urlo a più non posso.

L’omone ha preso per un braccio il mio bizzarro amico, gli sta facendo male e io non posso farci niente, come vorrei avere un briciolo in più di forza. Il mio amico però è forzuto e con una mossa di karate riesce a liberarsi dall’omone. Corre verso di me e con delicatezza mi tende il dito, io mi aggrappo e torno di nuovo sulle mie zampette, le mie ali però sono tutte impiastricciate di pittura.

-Che disastro!- esclamo.

L’omone però non si dà per vinta, ci raggiunge e urla in faccia al mio amico

– Se vuoi che ti paghi devi lavorare, brutto pezzo informe! Ora torna subito nei campi o te ne

pentirai!-

Il mio amico si gira, mi guarda, i suoi occhi sono lucidi, cerca di asciugarli con la manica della camicia e poi svanisce inghiottito di nuovo dall’oscurità del bosco lì a fianco.

-Uff, come faccio ora – mi guardo il dorso – Sono diventata verde! Ma… non sono per niente

felice! Mi manca il mio amico e non posso più volare, come posso fare?-

Mentre rifletto su quanto successo, cammino verso il bosco.

Arriva sera e poi mattina, finalmente raggiungo il campo dove lavora il mio amico. Chissà se riesce a riconoscermi ancora, mascherata in questo modo, mi domando. Pian piano mi avvicino al suo piede e ci salgo sopra. Lui all’improvviso mi vede, ricompaiono gli archi grandi sopra i suoi occhi. Una goccia di acqua gli cade dal viso e io mi ci tuffo sotto.

-Finalmente una doccia!- esclamo contenta.

Lui ride. Pian piano il colore verde svanisce, ritorno quella che ero, ora sono felice, perché sono con lui e anche lui è felice. Mi tende il dito, ci salgo sopra, poi mi appoggia sulla sua spalla e inizia a camminare dalla

parte del campo da dove sono arrivata, cammina svelto, sta quasi correndo, sì stiamo correndo a più non posso! Le nostre risate si confondono con il rumore del vento arriviamo nel campo, lo superiamo fino ad arrivare in un piccolo paesino con tante case. Stanchi ci sediamo su di un gradino, vicino a un vecchio muro tutto pieno di crepe. Dalle tasche il mio amico tira fuori un tubetto di colore verde, con le dita inizia a disegnare sul muro un meraviglioso prato, sembra lo stesso in cui abitavamo prima. Con delicatezza poi mi appoggia lì sopra, sospira e sorride. Lentamente si gira, dietro di lui c’è una bambina con la mamma che osservano il quadro appena dipinto.

-Stupendo, ma mancano i fiori- dice la signora.

– Signora, vorrei disegnare i tulipani, ma non ho i soldi per poter comprare altri colori per finirlo, quelli che avevo, li ho persi –

– Non c’è bisogno di partire con tutti i colori per disegnare dei fiori. Ad esempio, potrebbe iniziare dai girasoli, sono i fiori preferiti di mia figlia e le basta comprare solo il giallo e il nero.

Domani, venga da me in via Verdi 42, alla panetteria Il Forno, le insegnerò a fare il pane così da avere i soldi per poter finire il suo magnifico quadro –

-La ringrazio signora, come si chiama? –

-Mi chiamo Speranza e questa è mia figlia Alma

– Piacere, io mi chiamo Vincent-

“Le Voci Silenti” di Tiziana Calamunci | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Vivo ai margini della società e non è solo un modo di dire, il mio. Mi  ricavo dei cantucci negli angoli più acuti e nascosti delle città che soventemente vado a trovare. Sono anfratti impervi da scoraggiare la presenza di chiunque sia provvisto di buon senso.

Non che sia sempre stato così. Io provengo da una stimatissima famiglia di avvocati, lo era prima ancora che nascessi il mio bisnonno, il nonno, mio padre fino ad arrivare al sottoscritto.

Insieme al latte materno ho succhiato il mio avvenire, sono cresciuto, coccolato, trastullato amato, ben sapendo di avere la strada tracciata. Questo non mi  ha mai creato nessun problema, anzi!

Mentre la maggior parte dei miei amici era alla ricerca di un impiego che li caratterizzasse, io facevo già praticantato sul campo ancora prima di aver terminato le scuole superiori. Le astuzie le si assorbono respirandole direttamente dai grandi capi. Questo mi sono sentito ripetere da quando le parole hanno cominciato ad avere senso per me. Il mio vecchio non è secondo a nessuno nel fatto di saper voltare a proprio vantaggio qualsiasi situazione.

Si impara dai migliori.

Le mie giornate si svolgono attorno alla piazza di turno, cerco di raccattare qualcosa

Dall’ immondizia, il giorno del mercato rionale è il più favorevole, non si ha idea di quanta merce riesca a racimolare. È talmente tanta che il più delle volte finisco per barattarla con qualche viaggiatore sventurato come me, in cambio, oltre al cibo, mi è capitato di ricevere degli utensili.

Come il cucchiaio che mi porto  sempre appresso. Mi è utile nei momenti di magra  per poter dosare i viveri. Non più di tre bocconi quando si è in sovrabbondanza e non meno di uno in periodi di calo. Tenersi in salute è la regola principale se si vuole sopravvivere in giro.

Di come sia potuto passare da uno stato di privilegi a uno di  grandi privazioni, sinceramente non riesco a capacitarmene.

In realtà è stato un processo lento, con le mie stesse mani mi sono saldato addosso la cottiglia di metallo. Anello per anello con precisione maniacale.

Non potevo  concedermi di perdere, nessuno della nostra stirpe lo ha mai permesso.

Così non c’era sentenza che poteva tenere, (con l’ ultimo intrallazzo poi non è stato

particolarmente difficile), da quelle giuste a quelle dubbie. Ho pagato ingenti quattrini per potermele accaparrare, con il risultato di contribuire a riempire  il mondo di feccia, scarti umani: menzogneri, truffatori, corrotti, solo per citarne alcuni.

Non mi sono mai sentito in colpa per questo se proprio ci tenete a saperlo.

Non era affar mio, io mi limitavo a svolgere in positivo il mio lavoro, poi come lo avrebbero gestito gli altri non mi riguardava.

Intanto mi godevo gli innumerevoli privilegi, avevo sempre un posto di quelli più esclusivi, durante

le grandi prime teatrali, se non il tavolo migliore da Lumie`, il ristorante più stellato della Regione.

CLIC il rumore metallico si rinsaldava. CLIC la mia prigionia si sigillava. CLIC le mie ansie represse si ripresentavano. CLIC la mia voce da balbuziente era ricomparsa, non si vedeva dai tempi delle terapie da adolescente.

“Figliolo è  arrivato il momento che mi ritiri. Non ho più nulla da trasmetterti. Ora che sei diventato come me”.  CLIC CLIC CLIC, la doppia mandata era scattata.

Si è fatta sera, è meglio che mi ritiri nel mio quadratino di casa prima che qualcun altro me lo soffi.

Ho fatto fatica a recuperare i nuovi cartoni. Mi sono recato prima che arrivasse l’addetto alla nettezza urbana, a prendere i grandi imballaggi fuori dal gigantesco centro dell’arredamento. Non si ha idea di come siano protette le cucine e gli elettrodomestici. Per evitare graffi  e sfregi si sono inventati ogni tipo di copertura, per quelli che rimangono, seppur costosi, oggetti.

A volte mi capita di essere fortunato e di trovarci impresso sopra un’immagine di gente felice. Il tavolo apparecchiato con una bella tovaglia a quadretti rossa. Spesso  si tratta della prima colazione. Mi sembra di sentire il profumo del caffè appena tostato gorgogliante. Il tostapane che scatta, donandoti una fetta dorata da ambo i lati pronta ad accogliere la marmellata di frutti di bosco.

Faccio sogni d`oro in un’ambientazione simile .

Mi ero ammalato, mi facevo sostituire spesso e volentieri durante le udienze o disertavo le regolari cene familiari, avallando scuse miserabili. I migliori specialisti erano al mio servizio.

Una notte, mentre la morsa si fece più stretta, uscii per la via, percorsi il grande viale alberato che tutti i giorni mi si parava davanti agli occhi. Mi accolsero le danzanti fronde dei platani a mo’ di saluto, mossi da una leggera brezza impertinente.

A quell’ora apparivano scure minacciose come il mio animo. Vagai per ore, me ne accorsi per il leggero tepore del sole primaverile ormai alto e per la morsa della fame che mi pugnalava lo stomaco.

Non me ne fregava più nulla di me, di quello che pensava la gente che mi stava intorno. Luridi  parassiti mangiatori a tradimento. Con chi non riuscivo ad avere livore era con mio padre, lui mi aveva instillato il tarlo.

Difficile da estirpare, vecchio di secoli. La riconoscenza consanguinea.

Passai in questo stadio di tedio per svariati giorni. Iniziai a puzzare, di un puzzo nuovo, rancido, vischioso, insalubre. Talmente radicato  internamente, come le radici di una pianta.

Non potevi eliminarlo con il sapone nemmeno se si fosse arrivati al punto di scorticarsi. No! Aveva trovato terreno fertile già da tempo, si era semplicemente ben assestato.

In quei momenti non posso nascondere di aver toccato il fondo. È come se avessi messo in pratica tutto il marciume che avevo appreso solo teoricamente. Ho rubato, mi sono ubriacato, ho distrutto me stesso e non solo.

“Attento!”,  non feci in tempo a scansarmi che mi trovai a terra calpestato più  e più volte da piedi veloci.

“Mi dispiace avrei voluto evitarle questo, ma non ho fatto in tempo ad avvisarla. Lasci che l’ aiuti ad alzarsi”

“Non ne ho bisogno!”

Mi accorsi con orrore di non riuscire a stare in piedi e malgrado mi ritirassi come un riccio, non volevo che mi stesse troppo vicino, fui costretto ad assecondarla e farmi condurre docilmente nel suo rifugio. Una casa accoglienza, un po’ fatiscente per la verità ,gestita da tre donne ma data in autogestione agli ospiti.

La casetta era su due piani, a parte il salone all’ entrata, un locale molto spazioso, il resto degli spazi  adibiti a dormitori erano piuttosto piccoli proprio per poter dare più intimità possibile a più individui.

Internamente, dovetti ammettere che non era male a dispetto dell’ esterno.

Fui immediatamente disteso sul divano e arrivò un medico, uno di quelli disposti a sorvolare sulla parcella con chi non era abbiente e a farsi pagare con una buona fondina di minestra.

Stavolta avrebbe potuto essere retribuito e anche bene, peccato che  preso dalla  furia del momento non avessi tirato su niente.

Mi resi conto di essere miserabile, certo sarei potuto ritornare indietro, ma con che faccia?!!  Non ne avevo voglia al momento.

Nel frattempo osservavo ero incuriosito e poi, non potevo fare altrimenti, avevo rotto la caviglia destra. Omettendo la verità a me stesso, volevo capire e l’ unico modo possibile era stare con gente diversa.

Le etnie erano molteplici, di conseguenza: i cibi, gli aromi, i dosaggi, i saluti, i linguaggi, le preghiere, le meditazioni. Ognuno ci metteva del suo.

Non mi trovavo bene, ero in continuo disagio.

Essendo numerosi capitava di dover fare fronte  a delle piccole o grandi difficoltà quotidiane. Ed ecco spuntare il falegname pakistano, il costruttore di dighe africano, il muratore indiano, l’idraulico cingalese, il panificatore egiziano, e l’ italiano… per l’appunto che cosa potevo dare di concreto, se non le parole?

Così, senza rendermene conto, smisi un poco di emanare fetore. Iniziai ad aiutare, appena mi rimisi in moto. Imparai a riparare le biciclette, a smontare una cucina, a mettere su un quadro senza bucare un tubo dell`acqua, persino a preparare l’arrosto al forno  con le patate croccanti.

Ogni giorno mi ripromettevo che sarebbe stato l`ultimo, in realtà rimandavo di continuo. Mi piaceva starci, per la prima volta sentii la stretta  allentarsi, cominciavo a respirare, ad assaporare la vita come essere e non in virtù di quello che rappresentavo.

Imparai a ridere e a scherzare e mi sorpresi non poco di esserne capace. Nello stesso tempo mi capitava di tornare alla vita all`aperto, sentivo che ne avevo bisogno per riossigenarmi.

Ed è proprio al rientro di una di queste fughe in solitaria che la vidi. Se ne stava  rannicchiata sul divano consunto e rattoppato da tessuti diversi, era la rappresentazione fisica della casa, la mescolanza che crea un tutt’ uno.

“Dobbiamo andarcene da qui”, disse con le mani che coprivano il volto.

“come, scusa?”,  feci fatica a nascondere la balbuzie.

“Tra due giorni dovevamo recarci dal giudice per redigere l’atto notarile che avrebbe sancito definitivamente, dopo vent’ anni ,l’ avvenuto usucapione a nostro favore.

Al proprietario non è mai importato nulla, anzi era un peso per lui, perché questo voltagabbana? Perché vuole riprenderselo?

Lo sconforto nell’ aria era una nebbia palpabile .

Eppure sentivo che qualcosa  mi era sfuggito, quella via, in quel luogo mi ci ero portato, sì: portato.

Mi costò fatica, ma lo dovevo fare. Ritornai da mio padre. Fuori ero leggero, dentro ero un macigno.

Mi ricordavo tutto, di quell’ edificio, di come mi impuntai per riprendercelo, sarebbe diventata un’ efficiente stazione di servizio dalla posizione strategica. Di come potevamo ricavarci un sicuro profitto. Era solo un puntino su una cartina, prima. Mio padre accettò di liberarsene solo per il fatto che con il pacchetto me ne sarei andato anch’ io.

Oggi è l’ abitazione di tutti ed io vi ho scoperto la mia mansione: dare voce a chi non ce l’ ha. Non sempre mi trovate lì, spesso sono alla casa che respira, come definisco l’ aria aperta.

Lì sono veramente libero.

“Fili Volanti” di Alessandra Visconti | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

La lenza era stata lanciata lontano.

Trasportata dalla corrente il mulinello correva veloce…zac!

Il filo con un rumore secco si era staccato. L’avevano visto volteggiare leggero in aria e poi più niente.

Sulla spiaggia di un’isola non troppo lontana qualcosa di luminoso brillava al sole.

“Lascialo stare!” gridò la mamma  “ E’ solo un’ amo ed è anche arrugginito! Se non la smettono di pescare, qui sta diventando tutto sporco e pericoloso”, diceva la mamma allontanando il suo bambino.

Ma quello che per uno è uno scarto, per un altro può essere l’inizio di un nuovo gioco.

E così tra un filo e un rametto nacque un sodalizio, e un papà assieme al figlio costruirono una canna da pesca e con un pezzetto di pane all’amo qualche pesciolino aveva anche abboccato.

Come in  ogni gioco che rispetti il bambino si stancò presto e  così quel filo e il rametto vennero lasciati adagiati sullo scoglio. Il filo però era destinato a trasformarsi.

Intrecciato ad altri filli di colori diversi, diventò un portachiavi. E girò in un lungo e in largo l’Isola attaccato alla chiave del motorino. Aria fresca, sole cocente. Serate in riva al mare, qualche timido battito di cuore, cenno di un piccolissimo amore appena nato. E poi, sciolto ogni legame, il filo tornò a ad essere libero. Servì per aggiustare uno strumento.

Tirato alla perfezione cominciò a vibrare o meglio a suonare.

E suonando suonando incontrò o’ marranzano.

Divennero amici per le note,  al chiaro di luna nei racconti d’estate s’incontravano per suonare nuove musiche fuse come il formaggio negli arancini, divini!

Quel filo che un giorno per sbaglio era partito da un luogo caldo e lontano, volando leggero sul mare quasi fosse invisibile, era atterrato in una terra calda e brulla ma molto accogliente.

E lì aveva scoperto che un filo può essere molto di più di quello che pensava. Aveva capito di essere speciale.

Ad un aquilone che non riusciva a volare si prestò volentieri.

Se alzo gli occhi  ancora oggi li vedo in alto nel cielo leggeri, volteggiare.

MAC… CHE SORPRESA!-UN RACCONTO DI ROBERTA

“Non soffocare la tua ispirazione e la tua immaginazione, non diventare lo schiavo del tuo modello”- Vincent Van Gogh

I nostri corsisti di scrittura creativa, guidati da Ivil Iomy, entrano in contatto con la propria immaginazione armati di carta e penna dando vita a nuovi racconti. Come quello che ti presentiamo oggi, scritto da Roberta Corti dal titolo “Mac…che sorpresa!”. Siediti comodo e lasciati trasportare dalla sua storia.

MAC…CHE SORPRESA!

Ci eravamo dati appuntamento da Mac Donald per le 19.30 per un panino veloce prima di rientrare a casa. Mi guardai in giro, ma non lo vidi. Di solito il mio amico sedeva sul tavolone con i videogiochi incorporati nel piano, un po’ perché, nonostante l’età, amava ancora i videogiochi e un po’ perché detestava le altre postazioni. Diceva che i tavoloni con gli sgabelli alti gli davano un senso di “appollaiato”. Non ho mai capito cosa volesse dire con questa frase, ma Paolo era un tipo originale. Tanto originale da non volersi sedere neppure sui tavoli per quattro persone con le panche contrapposte perché diceva che gli sembrava di essere in treno.

Non riuscivo proprio a vedere Paolo all’interno del locale. Feci passare tutti i totem digitali dove si poteva scegliere il menù e pagare, ma non era neppure lì. Mi guardai ancora in giro e alla fine eccolo di spalle al bancone della caffetteria con un improbabile cappello di pelo che gli copriva anche le orecchie nonostante la temperatura della giornata fosse mite.

Paolo stava chiacchierando con la cameriera e dalla coda che si era formata dedussi che era un po’ che la stava intrattenendo. La ragazza puntava, quasi ipnotizzata, i suoi occhi scuri e brillanti verso gli occhi del mio amico che, dall’alto dei suoi quasi due metri di altezza, dominava la scena. Mi avvicinai per cercare di velocizzare l’ordinazione di Paolo e per distoglierlo da qualsiasi discorso avesse cominciato, anche se già immaginavo di cosa stesse dissertando.

“Sogno un futuro in cui gli uomini possano vivere in armonia con la natura,” stava recitando Paolo mentre disegnava un ampio cerchio con le braccia, “questo non è solo il principio su cui il WWF fonda la sua attività, ma anche il mio”.

Guardai sempre più preoccupata la fila delle persone in attesa del loro caffè, ma stranamente non notai segni di impazienza. La ragazza e il ragazzo proprio dietro Paolo stavano flirtando, sussurrandosi chissà quali dolci parole. Un anziano guardava divertito un bimbo che si era sporcato la bocca con il ketchup facendolo sembrare un piccolo pagliaccio. Seguiva una signora che lanciava occhiate interminabili e vogliose alla vetrinetta con brioche e torte.
Ci risiamo. Paolo sta facendo la solita magia: quando parla con quella sua voce profonda e calma è come se l’armonia della natura si riversi anche nelle persone che gli stanno accanto.

Non riuscivo, però, a decifrare cosa aveva in animo la cameriera: non aveva ancora proferito una parola, le guance erano di un rosso acceso e le mani le tremavano a tal punto che, nel tentativo di decorare la panna montata di un caffè, rovesciò sul bancone una quantità esagerata di smarties che rotolarono fino a terra.
Il mio amico, incurante di tutto e di tutti, la guardò divertito e disse: “Ma che bella cascata di colori, sembra che la primavera si stia spingendo anche qui grazie a questi fantastici dischetti colorati di cioccolato e zucchero”. Poi si bloccò a fissare qualcosa che aveva attirato la sua attenzione ad un lato del bancone ed esclamò: “No, non ci credo questo deve essere un segno del destino: le Cioccorane! Io adoro questi cioccolatini a forma di rana. Entrando, ho notato che questa è la settimana dedicata ad Harry Potter. Lo so che gadget vari e dolcetti sono tutti a tema, ma mai e poi mai avrei pensato di trovare le Cioccorane”. Senza quasi pendere fiato, continuò: “Io trovo rane e rospi creature fantastiche. Lo sai che sono un volontario per il salvataggio dei rospi? E oramai ci siamo, è la stagione in cui i rospi si spostano dal bosco per andare verso l’acqua a deporre le uova. Alla sera al calar del sole…”

Mi aspettavo che da un momento all’altro la ragazza avrebbe chiamato il responsabile per far buttar fuori Paolo o forse che lei stessa lo avrebbe cacciato e colpito con il primo arnese da bar che le fosse capitato a tiro. La cameriera cominciò ad agitare le mani come in cerca di qualcosa, poi aprì un cassetto e ne estrasse uno spillone di legno per capelli.  Io cominciai a sudare freddo e, mentre già vedovo nella mia mente una scena di sangue, guardai meglio l’oggetto e con mia grande sorpresa vidi che sull’estremità opposta alla punta aveva intagliato… un rospo! La ragazza alzò lo spillone, se lo sistemò tra i capelli, si tolse il camice da barista e con inaspettata agilità scavalcò il bancone. Con camminata decisa si avvicinò al mio amico, lo guardò negli occhi e, indicando la sua stessa maglietta rosa con un panda e la scritta WWF, finalmente parlò: “Io e te ora andiamo a salvare il mondo e renderlo migliore”.
Allungò il braccio, prese Paolo per mano e se lo portò via verso una notte di primavera in cui uomini e animali non erano forse così diversi.

Io, che ero rimasta a seguire tutta la scena praticamente in apnea, feci un respiro profondo e cercai di tornare in me, indecisa se arrabbiarmi per essere stata mollata così su due piedi o gioire per la nuova conquista fatta del mio amico. Decisi di risolvere la situazione affogandomi in una cioccolata calda con panna e una bella fetta di torta Sacher. Non è forse risaputo che il cacao è un toccasana per l’umore tanto da essere definito “l’ormone della felicità?”

Mi avvicinai al bancone e ordinai. Il sorriso ampio e accattivante del nuovo barman contribuì a farmi tornare il buon umore. Di una cosa ero sicura: avrei ricordato quella serata strampalata per molto tempo e avrei avuto un simpatico aneddoto da raccontare agli amici nelle future serate da Mac.

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LA FABBRICA DELLE STORIE

FUMETTO DI GIOIA

“I fumetti sono le favole per gli adulti”– così diceva Stan Lee, e chi li scrive e li crea lo sa bene!
I nostri ragazzi iscritti al corso di fumetto, tenuto da Ivil, tutte le settimane danno vita e forma alle proprie storie unendo parole e immagini. Ve ne diamo un assaggio mostrandovi uno dei lavori di Gioia, giovanissima corsista.

E tu? Ti piacerebbe imparare a raccontare le tue storie attraverso un fumetto?
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PESCI ROSSI-UN RACCONTO DI ELENA

“La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto”– così diceva Albert Einstein.
I nostri corsisti di scrittura creativa, guidati da Ivil Iomy, entrano in contatto con la propria immaginazione armati di carta e penna dando vita a nuovi racconti. Come quello che ti presentiamo oggi, scritto da Elena Dell’Oro dal titolo “Pesci Rossi”. Siediti comodo e lasciati trasportare dalla sua storia.

PESCI ROSSI

Inizio a sentire mancanza di casa. Insomma, è bello cambiare acqua di tanto in tanto, a chi non piace? Può anche essere stimolante, però non posso negare che ho sempre amato tornarci dopo lunghe assenze: mi piace appoggiare la testa sul mio cuscino, sdraiarmi nel mio letto, usare le mie cose… tutto ha un profumo così rassicurante e, dopo un po’ che sono lontana, nutro una certa nostalgia per questa routine.

«Puoi dirlo forte Lily, e poi inizia a far freddo qui dentro! Non appena sarà possibile porterò te e i bambini al mare. Quella vecchia megera, ci ha dimenticati qui nella vasca come l’ultima volta.»

Lui è mio marito Jim, ma non fateci caso. Gli piace ingigantire le cose, però non ha tutti i torti. La Signora Mildred, la donna che ci ha vinti alla pesca di paese da qualche mese ormai, non è molto attenta a ciò che fa.

«Non la vorrai difendere adesso?!»

«Jim! Fatti gli affari tuoi. Se avessi voluto intervenire, ti saresti fatto un racconto tuo. Ora parlo io, tu pensa ai bambini.»

Come vi dicevo, la signora Mildred a volte commette degli errori, ma non lo fa apposta: ha una certa età e vivendo tutta sola, ogni tanto le sfugge qualcosa. Ieri, ad esempio, voleva cambiare l’acqua della nostra boccia, e per farlo ci ha messi nella vasca da bagno. Un gesto davvero carino specialmente per i piccoli che qui hanno tanto spazio per giocare e si divertono un mondo. È come quando voi andate al parco, solo che vi capita anche di tornare a casa. Con la Signora Mildred non sempre il rientro è assicurato, almeno non nelle successive 24 ore. Ed eccoci qui, in questa immensa vasca, ad aspettare il suo ritorno.

«Puoi dirlo forte Lily! Oh, parli del diavolo… Eccola, è tornata finalmente. Adesso fa la faccia.»

«Quale faccia?»

«Quella che fa quando si accorge di essersi dimenticata qualcosa.»

Dovreste vederla anche voi, perché è davvero buffa! Si mette una mano sul fianco e fa schioccare l’altra sbattendo il palmo sulla fronte, mentre la sua bocca si apre in una “o” perfetta. Rimane qualche secondo in quella posizione, poi fa spallucce e se ne va (infatti non credo che torneremo presto nella boccia).

È davvero buffa la Signora Mildred. Come tutti i pomeriggi, anche oggi, dopo il sonnellino pomeridiano, deve essere andata da qualche parte. Basta vedere come si è agghindata.

«Jim, secondo te, la Signora Mildred ha un amante?»

«Un amante?! Non si ricorda dei suoi pesci rossi figuriamoci se ha un amante!»

«Guarda che è ancora una bella donna, anche se è così svampita. Che poi, parli proprio tu che hai la memoria di un pesce rosso!»

«Ma io sono un pesce rosso.»

Non gli si può dir nulla, effettivamente.

«LILY! Guardala, ma cosa fa?! È orribile, bambini non guardate chiudete gli occhi!»

«COSA SUCCEDE, COSA HAI VISTO?!»

«La signora Mildred si sta togliendo la faccia.»

«Jim…»

«Se la sta cancellando.»

«Jim…»

«Le schizza sangue ovunque, guarda il muro è tutto rosso!»

«JIM!!!»

«Oh mio Dio, mi sento svenire.»

«Calmati, si sta solo struccando.»

«Cosa sta facendo?»

«Si toglie il trucco dal viso. Tutti i colori che prima aveva sulla faccia, non facevano parte della sua pelle, e quello sul muro non è sangue si chiama rossetto.»

«Ah, falso allarme!  Ma perché lo fa?»

«Il rossetto sul muro non te lo so spiegare; per i colori sulla faccia: te l’ho detto, secondo me, ha l’amate.»

Non so come siete abituati voi, ma quando una signora si trucca e si veste così accuratamente, secondo me, è perché vuole far colpo. Magari ha conosciuto qualcuno di cui si è innamorata. Magari è per quello che è così svampita!

«Lily, non voglio interrompere il tuo sogno romantico, ma è più probabile che la sua sia demenza senile.»

«Aaah come sei noioso! Vuoi dire che quando sarò vecchia e non capirò più nulla non ti potrò più amare?»

«Mi auguro di no. Mal che vada ti amerò io per due.»

«Oh Jim, ecco perché ti amo tanto. Sarai sempre il mio brontolone preferito!»

Jim è così. Un po’ scorbutico e fatica a reagire a situazioni scomode come questa, ma alla fine se ne esce con queste frasi che mi fanno capire che vale la pena sentirlo brontolare standomene in acqua fredda e lontana da casa.

Non è poi così male questa vasca se ci sono lui e i bambini, potrei abituarmici e addirittura chiamarla casa.

 

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LA FABBRICA DELLE STORIE

ESSE-UN RACCONTO DI CHIARA

“La salvezza umana giace nelle mani dei creativi insoddisfatti”– così diceva Martin Luther King.
I corsisti di scrittura creativa guidati da Ivil Iomy, sperimentano tutte le settimane la potenzialità della propria fantasia dando vita a nuovi racconti. Come quello che ti presentiamo oggi, scritto da Chiara Perego dal titolo “Esse”. Siediti comodo e lasciati trasportare dalla sua storia.

ESSE

6.39. La sveglia sul comodino, imperturbabile, squillava come sempre la preghiera del mattino.

La sua mano, precisa come quella di un chirurgo, si allungò di quanto bastava per premere il tasto OFF che avrebbe decretato l’inizio di una lunga giornata, un’altra.

Occhi aperti, coperte tirate fino al naso, mente ancora sgombra dai pensieri: quella situazione di grazia, che si verificava puntualmente ogni mattina, durava pochi secondi; l’orologio quasi non arrivava alle 6.40 che subito le gambe sgattaiolavano giù dal letto, in cerca delle pantofole calde e morbide, e poi subito in bagno per riguadagnare le sembianze da essere umano presentabile alla Società. La notte, infatti, aveva un effetto trasformante su Leo: pareva che l’impalcatura che costruiva con fatica durante il giorno venisse abbattuta durante il riposo notturno; così, al risveglio, tutto da rifare.

Dopo la rasatura, il dopobarba, alcuni minuti spettavano alla pettinatura: i suoi capelli erano corti, ma non cortissimi, e l’indole sbarazzina di quei fili dorati lo costringeva a lunghe operazioni di fissaggio a suon di pettine e phon.

In particolare, sul lato destro del volto, un ricciolo ribelle tentava sempre di ricadergli davanti all’occhio, richiedendo una buona dose di pazienza per convincerlo a ritornare al suo posto.

«Prima o poi vi taglio tutti!», minacciava Leo ma poi subito si pentiva: già una volta era stato costretto a raparsi a zero, quando la sua ex fidanzata si era offerta di sistemargli i capelli, che, allora, erano un groviglio di boccoli adolescenziali: solo che lei, macchinetta in mano, si era distratta nel momento clou e gli aveva asportato una striscia di capelli, costringendolo, così, a eliminare anche il resto.

Il risultato non l’aveva assolutamente soddisfatto ma almeno sua madre aveva approvato quel look, decisamente più ordinato e serio.

Operazione successiva: vestirsi. Leo aprì l’armadio, prese dal secondo cassetto un paio di mutande e calze pulite, sfilò dall’appendino una camicia bianca e la sistemò vicino ai pantaloni e alla giacca, riposti accuratamente sulla sedia di fianco al letto la sera prima: non poteva sbagliare abbinamento, tutti i suoi vestiti per l’ufficio erano di un blu scuro che lasciava poco spazio all’errore.

Soprabito blu, zaino blu, mocassini lucidati che sembravano appena usciti dal negozio (sua madre lo ripeteva sempre: per capire com’è una persona, guardale le scarpe!): ora era pronto per affrontare la Società, là fuori.

7.20. Aprì la porta di casa e, puntuale come un esattore delle tasse, gli si presentò immediatamente la sua dirimpettaia, la Signora Twinny, che lo squadrò come faceva sempre da quando si era trasferito nel condominio di quel quartiere benestante, come a cercare un piccolo dettaglio fuori posto, un ricciolo ribelle, una scarpa infangata, che lo avrebbe reso meritevole della sua disapprovazione.

«Buongiorno Signora Twinny» disse educatamente.

«Oh, buongiorno! Esce così presto per andare al lavoro?»

«Già, mi piace fare due passi per arrivare in ufficio… Sa, poi mi siedo alla scrivania e non mi alzo per tutto il giorno!»

«Ma non attraverserà mica il parco?! E’ pieno di brutti ceffi!» sentenziò lapidaria la vicina.

L’ufficio distava circa 3 km dalla sua abitazione, si trovava in un quartiere riconvertito da qualche anno a zona commerciale e per raggiungerlo occorreva attraversare un parco cittadino, uno di quelli poco frequentati: c’era sempre il rischio di imbattersi in qualche poco di buono, così gli avevano detto i vicini, o di passeggiare in vialetti dal manto dissestato e poco puliti, per questo veniva snobbato dalla maggior parte degli abitanti della zona.

A Leo, tuttavia, piaceva attraversarlo, forse proprio perchè di rado si incontrava qualche anima viva la mattina presto: poteva godere del silenzio prima di tuffarsi nella Città e sentire la nebbiolina umida che gli accarezzava la faccia.

Naturalmente aveva taciuto la cosa a sua madre, questa abitudine l’avrebbe fatta preoccupare non poco e si sa, gli anziani devono stare tranquilli.

Lanciò uno sguardo all’orologio: in ritardo di 5 minuti sulla tabella di marcia! Con passo sostenuto sarebbe arrivato giusto in tempo per timbrare il cartellino. «Dannata Signora Twinny!»

Un passo dietro l’altro, testa bassa per offrire al freddo di novembre la minore superficie attaccabile, scrutava con la coda dell’occhio i cespugli ai lati del vialetto e i rami frondosi degli alberi per scovare qualche scoiattolo o qualche altro animale che la Città aveva risparmiato.

Doveva anche stare attento, al contempo, a non calpestare fango, gomme da masticare, escrementi e altre trappole infernali che lo avrebbero messo in difficoltà in ufficio! Uh, l’ufficio… un ammasso di automi senza passione nè empatia verso il prossimo; l’aveva capito subito, 3 mesi prima, quando si era presentato il primo giorno di lavoro con un vassoietto pieno di paste per i colleghi: nessuno le aveva mangiate. «Sai, da noi non si usa e i capi non vogliono che si mangi al di fuori della pausa pranzo».

Era riuscito, comunque, a farsi notare grazie a una camicia grigia a mezze maniche con stampati dei piccoli windsurf che gli era costata una serie di battute da parte dei colleghi e un richiamo ufficiale da parte del suo capufficio: «Qui non siamo al mercato, Signor Leo, l’Azienda richiede un abbigliamento consono all’immagine rispettabile e di affidabilità che essa riveste nella Società, pertanto…»

Quella sera stessa, appena arrivato a casa, aveva gettato la camicia nella “cesta dei svestiti”, un contenitore di vimini dove conservava tutti quegli abiti che oramai non poteva più permettersi di indossare perchè troppo colorati, troppo appariscenti, troppo disegnati, insomma, sempre troppo qualcosa. Non aveva il coraggio di disfarsene, ogni capo gli ricordava un momento della sua vita, quasi sempre felice…. Come la felpa giallo limone, il regalo di sua nonna Susanna per la laurea: «Leo, non prenderti mai troppo sul serio! Siamo nati per essere felici e ridere, ridere, ridere fino alla morte, ricordatelo!» gli aveva raccomandato mentre gli porgeva il pacchetto. Indossarla lo faceva sentire bene, pareva che ogni fibra di tessuto fosse intrisa delle parole di sua nonna e il suo umore migliorava repentinamente. Addirittura, gli sembrava che la felpa avesse un effetto snellente, nascondendogli la pancia, che stava cominciando a lievitare a causa delle ore passate alla scrivania.

I ghigni e i sussurri dei suoi amici lo avevano costretto, però, a rinunciare al piacere di indossarla.

7.50. «Cazzo, è tardi!» Leo affrettò il passo, un fumetto di aria umida si alzò dal bavero del soprabito, uno sguardo ancora all’orologio. «Speriamo che il capo non sia ancora arrivato!»

All’improvviso si bloccò in mezzo al vialetto, colpito da una strana sensazione: si sentiva scrutare da lontano, cosa che gli succedeva spesso in quella Città, ma il peso di quello sguardo era diverso dal solito: sembrava… benevolo.

Guardingo, riprese a camminare, sempre facendo attenzione a dove mettesse i piedi, strizzò gli occhi per cercare qualche indizio nella nebbia e risolvere quel mistero.

Istintivamente si mise la mano sulla tasca dove teneva il portafoglio, le voci allarmiste dei suoi vicini gli risuonavano in testa. Alle sue spalle avvertì un movimento di passi, una corsa, un affanno che sembrava dirigersi verso di lui. Senza voltarsi indietro, si mise a correre.

Era pesante. Era peloso. Era fradicio ed emanava un odore nauseabondo. Leo stava a terra, con un enorme cane bagnato sopra di lui che lo scrutava con occhi grandi a pochi centimetri dal suo naso. Rimase immobile, e così ogni cellula del suo corpo, per una manciata di secondi. «La prima regola per affrontare un orso è quella di fingersi morto», questo gli aveva insegnato suo zio Alfred, il fratello di suo padre, in occasione dell’unico campeggio che avevano fatto insieme. Ma, ora, non si trattava certo di avere a che fare con un orso: quell’affare peloso che stava sopra di lui gli sembrava più fastidioso che pericoloso.

Così, ricacciando indietro i ricordi giovanili, ignorando le parole che sempre gli aveva detto sua madre in merito ai cani: «Non toccarli! Non puoi sapere cosa gli passa per la testa», aveva cautamente spostato l’animale e si era rialzato, passandosi una mano sui vestiti sgualciti e infangati.

«E adesso?» pensò, «non posso davvero presentarmi in ufficio così conciato!»

Nel frattempo il cane gli si era avvicinato per un’usmatina, prima i mocassini, poi i pantaloni, poi un po’ più in su… questo umano doveva proprio piacergli perchè si mise a leccargli la mano. «Cosa fai!?! Sciò, via, torna dal tuo padrone!»

Ma quello niente, gli stava attaccato. Leo lo allontanò nuovamente, si pulì la mano nei calzoni tanto ormai… e cominciò a scrutare il parco in cerca del proprietario. Si girò in tutte le direzioni, fece una breve corsa  per raggiungere una panchina, vi salì sopra per avere una visuale migliore, ma niente, sembrava non ci fosse anima viva nel parco. Controllò allora se, per caso, al collo del cane non vi fosse una medaglietta, magari con un numero di telefono da chiamare in caso di smarrimento; tese la mano verso il muso dell’animale, il quale, senza troppo pensarci, si avvicinò e cominciò a leccargliela nuovamente; con l’altra mano Leo cercò di scostare il folto pelo tutto ammassato alla ricerca di un collare, e lo trovò. Era di pelle, ormai consunta, e portava attaccata una medaglietta romboidale che portava incisa solo una lettera: “S”. Niente da fare.

8.02. «Bene: e adesso che si fa? Non posso andare in ufficio, i pantaloni sono da buttare, ho una palla di pelo sudicia tra i piedi… come faccio a staccarmela di dosso?»

Il cane lo guardava tranquillo, come se lo conoscesse da sempre. Leo guardava il cane incredulo, perchè quello lo guardava tranquillo, come se lo conoscesse da sempre.

Non aveva mai avuto un cane in vita sua, nè gatti, nè criceti, gli era stato concesso solo qualche pesciolino rosso, il chè, inevitabilmente, gli aveva mostrato periodicamente cosa vuol dire morire, soli, isolati in una boccia di vetro senza aver mai conosciuto il mondo.

Eppure lui, come tutti i bambini e i ragazzi, lo avrebbe tanto voluto un animale che gli tenesse compagnia. Insomma, più di quella di un pesce rosso! I suoi genitori erano sempre stati inflessibili sulla questione.

Anche ora che abitava da solo, in quell’appartamento di un condominio signorile, nessuno dei suoi vicini possedeva un animale domestico, anche se il regolamento di condominio non lo vietava esplicitamente; era una di quelle regole non scritte che talvolta sono più forti della legge e che si erano consolidate nel corso dei decenni, favorite anche dal fatto che non c’era mai stato un grande ricambio di condomini.

Si decise a ripartire, da solo, e con passo deciso percorse una ventina di metri in direzione di casa; non si guardò indietro appositamente, per non incoraggiare la socievolezza dell’animale.

Girò l’angolo e con uno scatto si nascose dietro il tronco di una quercia, indirizzando lo sguardo da dove era partito per scrutare la situazione: il cane era rimasto lì, seduto, docile, con lo sguardo curioso indagava i dintorni in cerca di…. Ma certo, in cerca di lui!

All’improvviso Leo sentì una fitta allo stomaco, gli succedeva spesso quando provava emozioni forti. Già, ecco, si sentiva in colpa. Aveva abbandonato al suo destino quel povero cane, “S”, che gli era sembrato del tutto docile e affettuoso, molto più di tante persone che conosceva da tempo in quella Città, e solo perchè… perchè… beh, perchè sua madre non avrebbe approvato… e nemmeno i suoi vicini di casa… e nemmeno i suoi colleghi, la sua ex fidanzata, il panettiere, il benzinaio… tutti! Nessuno in quella Città avrebbe capito. In fondo era solo un cane, piuttosto sudicio, per di più.

Forse proprio quei pensieri gli diedero una scossa di adrenalina, o forse il ripensare alla sua vita solitaria, ai suoi vestiti blu, alla sua casa sempre in ordine e pulita.

«Ehm, pronto… sono Leo, ufficio contabilità, 3° piano. Volevo avvisare che… beh, ho avuto un contrattempo… no, oggi non riesco proprio a venire al lavoro. È che…»

Leo passò in rassegna tutto il suo personale campionario di scuse ma se ne uscì con una abbastanza banale: «Ho l’herpes, nulla di grave ma preferisco non rischiare di contagiare i colleghi… dovrebbe risolversi in qualche giorno».

Ora non restava che iniziare quella folle avventura.

«Qui, Esse!»

Il quadrupede lo guardò per un secondo, sembrava non aspettasse altro! Trascinando le tozze zampe in una corsa decisamente sgraziata, raggiunse quell’uomo così simpatico, gli si sistemò al fianco e lo seguì verso casa.

Leo entrò guardingo nel cortile. «Via libera, Esse!»

Salirono di corsa le scale, Leo aprì la porta quasi in apnea e la richiuse velocemente dietro di sè, sperando che la Sig.ra Twinny fosse occupata in qualche faccenda domestica.

Il cane si aggirò sospettoso per la casa, annusando tutto ciò che capitava lungo il suo percorso, e si sistemò, infine, sul tappeto del bagno.

A Leo scappò un sorriso: «Hai capito anche tu che hai bisogno di una bella pulita!»

Prese una ciotola con acqua tiepida, una spugna, e cominciò ad accarezzare il pelo. Il cagnolone si agitava sotto la sua mano, non per ribellarsi ma per incanalare quelle carezze in modo che durassero il più a lungo possibile.

«Punto 1: ripulita. Fatto! Non credere di essertela cavata con così poco, ci vuole una bella gita alla toilette per cani questo pomeriggio!»

«Punto 2: cibo, collare nuovo e guinzaglio»

Leo raccomandò al suo nuovo amico di non ridurre la casa a brandelli e, tra l’atterrito e il rassegnato, uscì di casa per evadere anche il punto 2 della sua lista.

Quando Leo ricomparse nel cortile portava nella mano destra un sacchetto pieno di succulente scatolette per cani e nella mano sinistra un sacchetto più piccolo con un nuovo collare rosso abbinato a un elegante guinzaglio.

«Chissà se troverò ancora la casa!» pensò Leo uscendo dall’ascensore e preparando le chiavi.

«Buongiorno!» disse squillante la Signora Twinny aprendo la porta all’improvviso e piombando in mezzo al pianerottolo bloccandogli la strada.

«Ehm…. Salve Signora Twinny». Leo nascose le buste dietro la schiena, veloce come un lampo.

«Già tornato dal lavoro? Così presto? Stavo bevendo la mia tisana al mirtillo di metà mattina e ho sentito la chiave che girava nella serratura della porta».

«Ehm… sì Signora Twinny, spero di non averla disturbata».

«No, figurati, è che, sai, a una certa età, non si ha molto da fare: dopo aver pulito il pavimento, i bagni e il balcone… Piuttosto, mi è sembrato di sentire dei rumori strani provenienti da casa tua».

«Mmm… no, Signora Twinny, deve aver sentito la televisione, la tengo accesa anche quando non ci sono per paura dei ladri».

«Ah, certo… Però, stamattina, ho trovato sul corridoio, vicino alle scale, delle impronte di fango… sembravano… ma sa, a una certa età, magari non ho visto bene».

«Signora Twinny, con questo tempaccio è probabile che chi sia passato dalle scale abbia lasciato un po’ di sporco. Non doveva venire forse l’elettricista per riparare l’antenna?»

«Uh, probabile… chissà… comunque, prima che lei se ne vada, le ricordo che deve ancora pagare la rata delle pulizie delle scale del mese scorso!»

«Sì, Signora Twinny», disse sospirando, «appena riesco passerò a saldare il debito».

«Sarà il caso! Voi giovani ve ne approfittate sempre di noi povere vecchiette!»

In quel momento Leo vide lo sguardo della Signora Twinny che si spostò repentinamente da lui verso la sua porta di casa: dei mugulii arrivavano da dietro la porta.

«Ah! Ma allora avevo ragione io! C’è qualcuno… qualcosa in casa!»

Leo si sentiva perduto, era stato scoperto! Quella sensazione di inadeguatezza gli era famigliare e spesso aveva dovuto giustificarsi di fronte agli altri.

Le sue parole, tuttavia, lo stupirono:

«Signora Twinny: lei ci sente e vede benissimo e ha usato tutti i suoi sensi per torturarmi da quando mi sono trasferito qui. Vuole sapere cosa c’è dietro quella porta? Lo vuole proprio sapere??? C’è un killer, una macchina di morte pronta a saltarle alla gola ad un mio cenno. Le conviene smettere di ficcanasare nella mia vita e di farsi un’abbondante dose di cazzi suoi… altrimenti…»

«Altrimenti?» chiese la Signora Twinny, ripiegando la bocca in una smorfia e spalancando gli occhi.

«Altrimenti scatenerò la belva contro di lei! Ah, un’altra cosa: la vedo sempre mentre butta le briciole della tovaglia sul balcone di sotto, si vergogni». Leo aveva sempre desiderato sbattere in faccia alla Signora Twinny quella scomoda verità.

«Io non… »

La Signora Twinny, con fare più infastidito che sconfitto, rincasò di fretta chiudendo bene la porta a chiave.

Leo entrò in casa, chiuse la porta e si appoggiò con la schiena ad essa, mentre il cagnolone gli leccava le mani. Tirò un grande sospiro e scoppiò a ridere: quel suo essere un po’ ribelle e maleducato lo aveva fatto sentire un gran bene!

Sistemò una ciotola piena di bocconcini e un’altra con dell’acqua vicino al tavolo della cucina; aprì l’armadio e frugò nella “cesta dei svestiti” alla ricerca della felpa gialla limone: la tenne sollevata tra le mani per qualche secondo e gli occhi gli si velarono di lacrime. La indossò, prese il guinzaglio e accarezzo vigorosamente il suo nuovo compagno. «Andiamo a fare una passeggiata, Esse» disse Leo, mentre un ricciolo ribelle gli ricadeva dolcemente sull’occhio.