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“Le Voci Silenti” di Tiziana Calamunci | Fuori dalla finestra: Un Mondo Di Parole

Vivo ai margini della società e non è solo un modo di dire, il mio. Mi  ricavo dei cantucci negli angoli più acuti e nascosti delle città che soventemente vado a trovare. Sono anfratti impervi da scoraggiare la presenza di chiunque sia provvisto di buon senso.

Non che sia sempre stato così. Io provengo da una stimatissima famiglia di avvocati, lo era prima ancora che nascessi il mio bisnonno, il nonno, mio padre fino ad arrivare al sottoscritto.

Insieme al latte materno ho succhiato il mio avvenire, sono cresciuto, coccolato, trastullato amato, ben sapendo di avere la strada tracciata. Questo non mi  ha mai creato nessun problema, anzi!

Mentre la maggior parte dei miei amici era alla ricerca di un impiego che li caratterizzasse, io facevo già praticantato sul campo ancora prima di aver terminato le scuole superiori. Le astuzie le si assorbono respirandole direttamente dai grandi capi. Questo mi sono sentito ripetere da quando le parole hanno cominciato ad avere senso per me. Il mio vecchio non è secondo a nessuno nel fatto di saper voltare a proprio vantaggio qualsiasi situazione.

Si impara dai migliori.

Le mie giornate si svolgono attorno alla piazza di turno, cerco di raccattare qualcosa

Dall’ immondizia, il giorno del mercato rionale è il più favorevole, non si ha idea di quanta merce riesca a racimolare. È talmente tanta che il più delle volte finisco per barattarla con qualche viaggiatore sventurato come me, in cambio, oltre al cibo, mi è capitato di ricevere degli utensili.

Come il cucchiaio che mi porto  sempre appresso. Mi è utile nei momenti di magra  per poter dosare i viveri. Non più di tre bocconi quando si è in sovrabbondanza e non meno di uno in periodi di calo. Tenersi in salute è la regola principale se si vuole sopravvivere in giro.

Di come sia potuto passare da uno stato di privilegi a uno di  grandi privazioni, sinceramente non riesco a capacitarmene.

In realtà è stato un processo lento, con le mie stesse mani mi sono saldato addosso la cottiglia di metallo. Anello per anello con precisione maniacale.

Non potevo  concedermi di perdere, nessuno della nostra stirpe lo ha mai permesso.

Così non c’era sentenza che poteva tenere, (con l’ ultimo intrallazzo poi non è stato

particolarmente difficile), da quelle giuste a quelle dubbie. Ho pagato ingenti quattrini per potermele accaparrare, con il risultato di contribuire a riempire  il mondo di feccia, scarti umani: menzogneri, truffatori, corrotti, solo per citarne alcuni.

Non mi sono mai sentito in colpa per questo se proprio ci tenete a saperlo.

Non era affar mio, io mi limitavo a svolgere in positivo il mio lavoro, poi come lo avrebbero gestito gli altri non mi riguardava.

Intanto mi godevo gli innumerevoli privilegi, avevo sempre un posto di quelli più esclusivi, durante

le grandi prime teatrali, se non il tavolo migliore da Lumie`, il ristorante più stellato della Regione.

CLIC il rumore metallico si rinsaldava. CLIC la mia prigionia si sigillava. CLIC le mie ansie represse si ripresentavano. CLIC la mia voce da balbuziente era ricomparsa, non si vedeva dai tempi delle terapie da adolescente.

“Figliolo è  arrivato il momento che mi ritiri. Non ho più nulla da trasmetterti. Ora che sei diventato come me”.  CLIC CLIC CLIC, la doppia mandata era scattata.

Si è fatta sera, è meglio che mi ritiri nel mio quadratino di casa prima che qualcun altro me lo soffi.

Ho fatto fatica a recuperare i nuovi cartoni. Mi sono recato prima che arrivasse l’addetto alla nettezza urbana, a prendere i grandi imballaggi fuori dal gigantesco centro dell’arredamento. Non si ha idea di come siano protette le cucine e gli elettrodomestici. Per evitare graffi  e sfregi si sono inventati ogni tipo di copertura, per quelli che rimangono, seppur costosi, oggetti.

A volte mi capita di essere fortunato e di trovarci impresso sopra un’immagine di gente felice. Il tavolo apparecchiato con una bella tovaglia a quadretti rossa. Spesso  si tratta della prima colazione. Mi sembra di sentire il profumo del caffè appena tostato gorgogliante. Il tostapane che scatta, donandoti una fetta dorata da ambo i lati pronta ad accogliere la marmellata di frutti di bosco.

Faccio sogni d`oro in un’ambientazione simile .

Mi ero ammalato, mi facevo sostituire spesso e volentieri durante le udienze o disertavo le regolari cene familiari, avallando scuse miserabili. I migliori specialisti erano al mio servizio.

Una notte, mentre la morsa si fece più stretta, uscii per la via, percorsi il grande viale alberato che tutti i giorni mi si parava davanti agli occhi. Mi accolsero le danzanti fronde dei platani a mo’ di saluto, mossi da una leggera brezza impertinente.

A quell’ora apparivano scure minacciose come il mio animo. Vagai per ore, me ne accorsi per il leggero tepore del sole primaverile ormai alto e per la morsa della fame che mi pugnalava lo stomaco.

Non me ne fregava più nulla di me, di quello che pensava la gente che mi stava intorno. Luridi  parassiti mangiatori a tradimento. Con chi non riuscivo ad avere livore era con mio padre, lui mi aveva instillato il tarlo.

Difficile da estirpare, vecchio di secoli. La riconoscenza consanguinea.

Passai in questo stadio di tedio per svariati giorni. Iniziai a puzzare, di un puzzo nuovo, rancido, vischioso, insalubre. Talmente radicato  internamente, come le radici di una pianta.

Non potevi eliminarlo con il sapone nemmeno se si fosse arrivati al punto di scorticarsi. No! Aveva trovato terreno fertile già da tempo, si era semplicemente ben assestato.

In quei momenti non posso nascondere di aver toccato il fondo. È come se avessi messo in pratica tutto il marciume che avevo appreso solo teoricamente. Ho rubato, mi sono ubriacato, ho distrutto me stesso e non solo.

“Attento!”,  non feci in tempo a scansarmi che mi trovai a terra calpestato più  e più volte da piedi veloci.

“Mi dispiace avrei voluto evitarle questo, ma non ho fatto in tempo ad avvisarla. Lasci che l’ aiuti ad alzarsi”

“Non ne ho bisogno!”

Mi accorsi con orrore di non riuscire a stare in piedi e malgrado mi ritirassi come un riccio, non volevo che mi stesse troppo vicino, fui costretto ad assecondarla e farmi condurre docilmente nel suo rifugio. Una casa accoglienza, un po’ fatiscente per la verità ,gestita da tre donne ma data in autogestione agli ospiti.

La casetta era su due piani, a parte il salone all’ entrata, un locale molto spazioso, il resto degli spazi  adibiti a dormitori erano piuttosto piccoli proprio per poter dare più intimità possibile a più individui.

Internamente, dovetti ammettere che non era male a dispetto dell’ esterno.

Fui immediatamente disteso sul divano e arrivò un medico, uno di quelli disposti a sorvolare sulla parcella con chi non era abbiente e a farsi pagare con una buona fondina di minestra.

Stavolta avrebbe potuto essere retribuito e anche bene, peccato che  preso dalla  furia del momento non avessi tirato su niente.

Mi resi conto di essere miserabile, certo sarei potuto ritornare indietro, ma con che faccia?!!  Non ne avevo voglia al momento.

Nel frattempo osservavo ero incuriosito e poi, non potevo fare altrimenti, avevo rotto la caviglia destra. Omettendo la verità a me stesso, volevo capire e l’ unico modo possibile era stare con gente diversa.

Le etnie erano molteplici, di conseguenza: i cibi, gli aromi, i dosaggi, i saluti, i linguaggi, le preghiere, le meditazioni. Ognuno ci metteva del suo.

Non mi trovavo bene, ero in continuo disagio.

Essendo numerosi capitava di dover fare fronte  a delle piccole o grandi difficoltà quotidiane. Ed ecco spuntare il falegname pakistano, il costruttore di dighe africano, il muratore indiano, l’idraulico cingalese, il panificatore egiziano, e l’ italiano… per l’appunto che cosa potevo dare di concreto, se non le parole?

Così, senza rendermene conto, smisi un poco di emanare fetore. Iniziai ad aiutare, appena mi rimisi in moto. Imparai a riparare le biciclette, a smontare una cucina, a mettere su un quadro senza bucare un tubo dell`acqua, persino a preparare l’arrosto al forno  con le patate croccanti.

Ogni giorno mi ripromettevo che sarebbe stato l`ultimo, in realtà rimandavo di continuo. Mi piaceva starci, per la prima volta sentii la stretta  allentarsi, cominciavo a respirare, ad assaporare la vita come essere e non in virtù di quello che rappresentavo.

Imparai a ridere e a scherzare e mi sorpresi non poco di esserne capace. Nello stesso tempo mi capitava di tornare alla vita all`aperto, sentivo che ne avevo bisogno per riossigenarmi.

Ed è proprio al rientro di una di queste fughe in solitaria che la vidi. Se ne stava  rannicchiata sul divano consunto e rattoppato da tessuti diversi, era la rappresentazione fisica della casa, la mescolanza che crea un tutt’ uno.

“Dobbiamo andarcene da qui”, disse con le mani che coprivano il volto.

“come, scusa?”,  feci fatica a nascondere la balbuzie.

“Tra due giorni dovevamo recarci dal giudice per redigere l’atto notarile che avrebbe sancito definitivamente, dopo vent’ anni ,l’ avvenuto usucapione a nostro favore.

Al proprietario non è mai importato nulla, anzi era un peso per lui, perché questo voltagabbana? Perché vuole riprenderselo?

Lo sconforto nell’ aria era una nebbia palpabile .

Eppure sentivo che qualcosa  mi era sfuggito, quella via, in quel luogo mi ci ero portato, sì: portato.

Mi costò fatica, ma lo dovevo fare. Ritornai da mio padre. Fuori ero leggero, dentro ero un macigno.

Mi ricordavo tutto, di quell’ edificio, di come mi impuntai per riprendercelo, sarebbe diventata un’ efficiente stazione di servizio dalla posizione strategica. Di come potevamo ricavarci un sicuro profitto. Era solo un puntino su una cartina, prima. Mio padre accettò di liberarsene solo per il fatto che con il pacchetto me ne sarei andato anch’ io.

Oggi è l’ abitazione di tutti ed io vi ho scoperto la mia mansione: dare voce a chi non ce l’ ha. Non sempre mi trovate lì, spesso sono alla casa che respira, come definisco l’ aria aperta.

Lì sono veramente libero.