
“La salvezza umana giace nelle mani dei creativi insoddisfatti”– così diceva Martin Luther King.
I corsisti di scrittura creativa guidati da Ivil Iomy, sperimentano tutte le settimane la potenzialità della propria fantasia dando vita a nuovi racconti. Come quello che ti presentiamo oggi, scritto da Chiara Perego dal titolo “Esse”. Siediti comodo e lasciati trasportare dalla sua storia.
ESSE6.39. La sveglia sul comodino, imperturbabile, squillava come sempre la preghiera del mattino. La sua mano, precisa come quella di un chirurgo, si allungò di quanto bastava per premere il tasto OFF che avrebbe decretato l’inizio di una lunga giornata, un’altra. Occhi aperti, coperte tirate fino al naso, mente ancora sgombra dai pensieri: quella situazione di grazia, che si verificava puntualmente ogni mattina, durava pochi secondi; l’orologio quasi non arrivava alle 6.40 che subito le gambe sgattaiolavano giù dal letto, in cerca delle pantofole calde e morbide, e poi subito in bagno per riguadagnare le sembianze da essere umano presentabile alla Società. La notte, infatti, aveva un effetto trasformante su Leo: pareva che l’impalcatura che costruiva con fatica durante il giorno venisse abbattuta durante il riposo notturno; così, al risveglio, tutto da rifare. Dopo la rasatura, il dopobarba, alcuni minuti spettavano alla pettinatura: i suoi capelli erano corti, ma non cortissimi, e l’indole sbarazzina di quei fili dorati lo costringeva a lunghe operazioni di fissaggio a suon di pettine e phon. In particolare, sul lato destro del volto, un ricciolo ribelle tentava sempre di ricadergli davanti all’occhio, richiedendo una buona dose di pazienza per convincerlo a ritornare al suo posto. «Prima o poi vi taglio tutti!», minacciava Leo ma poi subito si pentiva: già una volta era stato costretto a raparsi a zero, quando la sua ex fidanzata si era offerta di sistemargli i capelli, che, allora, erano un groviglio di boccoli adolescenziali: solo che lei, macchinetta in mano, si era distratta nel momento clou e gli aveva asportato una striscia di capelli, costringendolo, così, a eliminare anche il resto. Il risultato non l’aveva assolutamente soddisfatto ma almeno sua madre aveva approvato quel look, decisamente più ordinato e serio. Operazione successiva: vestirsi. Leo aprì l’armadio, prese dal secondo cassetto un paio di mutande e calze pulite, sfilò dall’appendino una camicia bianca e la sistemò vicino ai pantaloni e alla giacca, riposti accuratamente sulla sedia di fianco al letto la sera prima: non poteva sbagliare abbinamento, tutti i suoi vestiti per l’ufficio erano di un blu scuro che lasciava poco spazio all’errore. Soprabito blu, zaino blu, mocassini lucidati che sembravano appena usciti dal negozio (sua madre lo ripeteva sempre: per capire com’è una persona, guardale le scarpe!): ora era pronto per affrontare la Società, là fuori. 7.20. Aprì la porta di casa e, puntuale come un esattore delle tasse, gli si presentò immediatamente la sua dirimpettaia, la Signora Twinny, che lo squadrò come faceva sempre da quando si era trasferito nel condominio di quel quartiere benestante, come a cercare un piccolo dettaglio fuori posto, un ricciolo ribelle, una scarpa infangata, che lo avrebbe reso meritevole della sua disapprovazione. «Buongiorno Signora Twinny» disse educatamente. «Oh, buongiorno! Esce così presto per andare al lavoro?» «Già, mi piace fare due passi per arrivare in ufficio… Sa, poi mi siedo alla scrivania e non mi alzo per tutto il giorno!» «Ma non attraverserà mica il parco?! E’ pieno di brutti ceffi!» sentenziò lapidaria la vicina. L’ufficio distava circa 3 km dalla sua abitazione, si trovava in un quartiere riconvertito da qualche anno a zona commerciale e per raggiungerlo occorreva attraversare un parco cittadino, uno di quelli poco frequentati: c’era sempre il rischio di imbattersi in qualche poco di buono, così gli avevano detto i vicini, o di passeggiare in vialetti dal manto dissestato e poco puliti, per questo veniva snobbato dalla maggior parte degli abitanti della zona. A Leo, tuttavia, piaceva attraversarlo, forse proprio perchè di rado si incontrava qualche anima viva la mattina presto: poteva godere del silenzio prima di tuffarsi nella Città e sentire la nebbiolina umida che gli accarezzava la faccia. Naturalmente aveva taciuto la cosa a sua madre, questa abitudine l’avrebbe fatta preoccupare non poco e si sa, gli anziani devono stare tranquilli. Lanciò uno sguardo all’orologio: in ritardo di 5 minuti sulla tabella di marcia! Con passo sostenuto sarebbe arrivato giusto in tempo per timbrare il cartellino. «Dannata Signora Twinny!» Un passo dietro l’altro, testa bassa per offrire al freddo di novembre la minore superficie attaccabile, scrutava con la coda dell’occhio i cespugli ai lati del vialetto e i rami frondosi degli alberi per scovare qualche scoiattolo o qualche altro animale che la Città aveva risparmiato. Doveva anche stare attento, al contempo, a non calpestare fango, gomme da masticare, escrementi e altre trappole infernali che lo avrebbero messo in difficoltà in ufficio! Uh, l’ufficio… un ammasso di automi senza passione nè empatia verso il prossimo; l’aveva capito subito, 3 mesi prima, quando si era presentato il primo giorno di lavoro con un vassoietto pieno di paste per i colleghi: nessuno le aveva mangiate. «Sai, da noi non si usa e i capi non vogliono che si mangi al di fuori della pausa pranzo». Era riuscito, comunque, a farsi notare grazie a una camicia grigia a mezze maniche con stampati dei piccoli windsurf che gli era costata una serie di battute da parte dei colleghi e un richiamo ufficiale da parte del suo capufficio: «Qui non siamo al mercato, Signor Leo, l’Azienda richiede un abbigliamento consono all’immagine rispettabile e di affidabilità che essa riveste nella Società, pertanto…» Quella sera stessa, appena arrivato a casa, aveva gettato la camicia nella “cesta dei svestiti”, un contenitore di vimini dove conservava tutti quegli abiti che oramai non poteva più permettersi di indossare perchè troppo colorati, troppo appariscenti, troppo disegnati, insomma, sempre troppo qualcosa. Non aveva il coraggio di disfarsene, ogni capo gli ricordava un momento della sua vita, quasi sempre felice…. Come la felpa giallo limone, il regalo di sua nonna Susanna per la laurea: «Leo, non prenderti mai troppo sul serio! Siamo nati per essere felici e ridere, ridere, ridere fino alla morte, ricordatelo!» gli aveva raccomandato mentre gli porgeva il pacchetto. Indossarla lo faceva sentire bene, pareva che ogni fibra di tessuto fosse intrisa delle parole di sua nonna e il suo umore migliorava repentinamente. Addirittura, gli sembrava che la felpa avesse un effetto snellente, nascondendogli la pancia, che stava cominciando a lievitare a causa delle ore passate alla scrivania. I ghigni e i sussurri dei suoi amici lo avevano costretto, però, a rinunciare al piacere di indossarla. 7.50. «Cazzo, è tardi!» Leo affrettò il passo, un fumetto di aria umida si alzò dal bavero del soprabito, uno sguardo ancora all’orologio. «Speriamo che il capo non sia ancora arrivato!» All’improvviso si bloccò in mezzo al vialetto, colpito da una strana sensazione: si sentiva scrutare da lontano, cosa che gli succedeva spesso in quella Città, ma il peso di quello sguardo era diverso dal solito: sembrava… benevolo. Guardingo, riprese a camminare, sempre facendo attenzione a dove mettesse i piedi, strizzò gli occhi per cercare qualche indizio nella nebbia e risolvere quel mistero. Istintivamente si mise la mano sulla tasca dove teneva il portafoglio, le voci allarmiste dei suoi vicini gli risuonavano in testa. Alle sue spalle avvertì un movimento di passi, una corsa, un affanno che sembrava dirigersi verso di lui. Senza voltarsi indietro, si mise a correre. Era pesante. Era peloso. Era fradicio ed emanava un odore nauseabondo. Leo stava a terra, con un enorme cane bagnato sopra di lui che lo scrutava con occhi grandi a pochi centimetri dal suo naso. Rimase immobile, e così ogni cellula del suo corpo, per una manciata di secondi. «La prima regola per affrontare un orso è quella di fingersi morto», questo gli aveva insegnato suo zio Alfred, il fratello di suo padre, in occasione dell’unico campeggio che avevano fatto insieme. Ma, ora, non si trattava certo di avere a che fare con un orso: quell’affare peloso che stava sopra di lui gli sembrava più fastidioso che pericoloso. Così, ricacciando indietro i ricordi giovanili, ignorando le parole che sempre gli aveva detto sua madre in merito ai cani: «Non toccarli! Non puoi sapere cosa gli passa per la testa», aveva cautamente spostato l’animale e si era rialzato, passandosi una mano sui vestiti sgualciti e infangati. «E adesso?» pensò, «non posso davvero presentarmi in ufficio così conciato!» Nel frattempo il cane gli si era avvicinato per un’usmatina, prima i mocassini, poi i pantaloni, poi un po’ più in su… questo umano doveva proprio piacergli perchè si mise a leccargli la mano. «Cosa fai!?! Sciò, via, torna dal tuo padrone!» Ma quello niente, gli stava attaccato. Leo lo allontanò nuovamente, si pulì la mano nei calzoni tanto ormai… e cominciò a scrutare il parco in cerca del proprietario. Si girò in tutte le direzioni, fece una breve corsa per raggiungere una panchina, vi salì sopra per avere una visuale migliore, ma niente, sembrava non ci fosse anima viva nel parco. Controllò allora se, per caso, al collo del cane non vi fosse una medaglietta, magari con un numero di telefono da chiamare in caso di smarrimento; tese la mano verso il muso dell’animale, il quale, senza troppo pensarci, si avvicinò e cominciò a leccargliela nuovamente; con l’altra mano Leo cercò di scostare il folto pelo tutto ammassato alla ricerca di un collare, e lo trovò. Era di pelle, ormai consunta, e portava attaccata una medaglietta romboidale che portava incisa solo una lettera: “S”. Niente da fare. 8.02. «Bene: e adesso che si fa? Non posso andare in ufficio, i pantaloni sono da buttare, ho una palla di pelo sudicia tra i piedi… come faccio a staccarmela di dosso?» Il cane lo guardava tranquillo, come se lo conoscesse da sempre. Leo guardava il cane incredulo, perchè quello lo guardava tranquillo, come se lo conoscesse da sempre. Non aveva mai avuto un cane in vita sua, nè gatti, nè criceti, gli era stato concesso solo qualche pesciolino rosso, il chè, inevitabilmente, gli aveva mostrato periodicamente cosa vuol dire morire, soli, isolati in una boccia di vetro senza aver mai conosciuto il mondo. Eppure lui, come tutti i bambini e i ragazzi, lo avrebbe tanto voluto un animale che gli tenesse compagnia. Insomma, più di quella di un pesce rosso! I suoi genitori erano sempre stati inflessibili sulla questione. Anche ora che abitava da solo, in quell’appartamento di un condominio signorile, nessuno dei suoi vicini possedeva un animale domestico, anche se il regolamento di condominio non lo vietava esplicitamente; era una di quelle regole non scritte che talvolta sono più forti della legge e che si erano consolidate nel corso dei decenni, favorite anche dal fatto che non c’era mai stato un grande ricambio di condomini. Si decise a ripartire, da solo, e con passo deciso percorse una ventina di metri in direzione di casa; non si guardò indietro appositamente, per non incoraggiare la socievolezza dell’animale. Girò l’angolo e con uno scatto si nascose dietro il tronco di una quercia, indirizzando lo sguardo da dove era partito per scrutare la situazione: il cane era rimasto lì, seduto, docile, con lo sguardo curioso indagava i dintorni in cerca di…. Ma certo, in cerca di lui! All’improvviso Leo sentì una fitta allo stomaco, gli succedeva spesso quando provava emozioni forti. Già, ecco, si sentiva in colpa. Aveva abbandonato al suo destino quel povero cane, “S”, che gli era sembrato del tutto docile e affettuoso, molto più di tante persone che conosceva da tempo in quella Città, e solo perchè… perchè… beh, perchè sua madre non avrebbe approvato… e nemmeno i suoi vicini di casa… e nemmeno i suoi colleghi, la sua ex fidanzata, il panettiere, il benzinaio… tutti! Nessuno in quella Città avrebbe capito. In fondo era solo un cane, piuttosto sudicio, per di più. Forse proprio quei pensieri gli diedero una scossa di adrenalina, o forse il ripensare alla sua vita solitaria, ai suoi vestiti blu, alla sua casa sempre in ordine e pulita. «Ehm, pronto… sono Leo, ufficio contabilità, 3° piano. Volevo avvisare che… beh, ho avuto un contrattempo… no, oggi non riesco proprio a venire al lavoro. È che…» Leo passò in rassegna tutto il suo personale campionario di scuse ma se ne uscì con una abbastanza banale: «Ho l’herpes, nulla di grave ma preferisco non rischiare di contagiare i colleghi… dovrebbe risolversi in qualche giorno». Ora non restava che iniziare quella folle avventura. «Qui, Esse!» Il quadrupede lo guardò per un secondo, sembrava non aspettasse altro! Trascinando le tozze zampe in una corsa decisamente sgraziata, raggiunse quell’uomo così simpatico, gli si sistemò al fianco e lo seguì verso casa. Leo entrò guardingo nel cortile. «Via libera, Esse!» Salirono di corsa le scale, Leo aprì la porta quasi in apnea e la richiuse velocemente dietro di sè, sperando che la Sig.ra Twinny fosse occupata in qualche faccenda domestica. Il cane si aggirò sospettoso per la casa, annusando tutto ciò che capitava lungo il suo percorso, e si sistemò, infine, sul tappeto del bagno. A Leo scappò un sorriso: «Hai capito anche tu che hai bisogno di una bella pulita!» Prese una ciotola con acqua tiepida, una spugna, e cominciò ad accarezzare il pelo. Il cagnolone si agitava sotto la sua mano, non per ribellarsi ma per incanalare quelle carezze in modo che durassero il più a lungo possibile. «Punto 1: ripulita. Fatto! Non credere di essertela cavata con così poco, ci vuole una bella gita alla toilette per cani questo pomeriggio!» «Punto 2: cibo, collare nuovo e guinzaglio» Leo raccomandò al suo nuovo amico di non ridurre la casa a brandelli e, tra l’atterrito e il rassegnato, uscì di casa per evadere anche il punto 2 della sua lista. Quando Leo ricomparse nel cortile portava nella mano destra un sacchetto pieno di succulente scatolette per cani e nella mano sinistra un sacchetto più piccolo con un nuovo collare rosso abbinato a un elegante guinzaglio. «Chissà se troverò ancora la casa!» pensò Leo uscendo dall’ascensore e preparando le chiavi. «Buongiorno!» disse squillante la Signora Twinny aprendo la porta all’improvviso e piombando in mezzo al pianerottolo bloccandogli la strada. «Ehm…. Salve Signora Twinny». Leo nascose le buste dietro la schiena, veloce come un lampo. «Già tornato dal lavoro? Così presto? Stavo bevendo la mia tisana al mirtillo di metà mattina e ho sentito la chiave che girava nella serratura della porta». «Ehm… sì Signora Twinny, spero di non averla disturbata». «No, figurati, è che, sai, a una certa età, non si ha molto da fare: dopo aver pulito il pavimento, i bagni e il balcone… Piuttosto, mi è sembrato di sentire dei rumori strani provenienti da casa tua». «Mmm… no, Signora Twinny, deve aver sentito la televisione, la tengo accesa anche quando non ci sono per paura dei ladri». «Ah, certo… Però, stamattina, ho trovato sul corridoio, vicino alle scale, delle impronte di fango… sembravano… ma sa, a una certa età, magari non ho visto bene». «Signora Twinny, con questo tempaccio è probabile che chi sia passato dalle scale abbia lasciato un po’ di sporco. Non doveva venire forse l’elettricista per riparare l’antenna?» «Uh, probabile… chissà… comunque, prima che lei se ne vada, le ricordo che deve ancora pagare la rata delle pulizie delle scale del mese scorso!» «Sì, Signora Twinny», disse sospirando, «appena riesco passerò a saldare il debito». «Sarà il caso! Voi giovani ve ne approfittate sempre di noi povere vecchiette!» In quel momento Leo vide lo sguardo della Signora Twinny che si spostò repentinamente da lui verso la sua porta di casa: dei mugulii arrivavano da dietro la porta. «Ah! Ma allora avevo ragione io! C’è qualcuno… qualcosa in casa!» Leo si sentiva perduto, era stato scoperto! Quella sensazione di inadeguatezza gli era famigliare e spesso aveva dovuto giustificarsi di fronte agli altri. Le sue parole, tuttavia, lo stupirono: «Signora Twinny: lei ci sente e vede benissimo e ha usato tutti i suoi sensi per torturarmi da quando mi sono trasferito qui. Vuole sapere cosa c’è dietro quella porta? Lo vuole proprio sapere??? C’è un killer, una macchina di morte pronta a saltarle alla gola ad un mio cenno. Le conviene smettere di ficcanasare nella mia vita e di farsi un’abbondante dose di cazzi suoi… altrimenti…» «Altrimenti?» chiese la Signora Twinny, ripiegando la bocca in una smorfia e spalancando gli occhi. «Altrimenti scatenerò la belva contro di lei! Ah, un’altra cosa: la vedo sempre mentre butta le briciole della tovaglia sul balcone di sotto, si vergogni». Leo aveva sempre desiderato sbattere in faccia alla Signora Twinny quella scomoda verità. «Io non… » La Signora Twinny, con fare più infastidito che sconfitto, rincasò di fretta chiudendo bene la porta a chiave. Leo entrò in casa, chiuse la porta e si appoggiò con la schiena ad essa, mentre il cagnolone gli leccava le mani. Tirò un grande sospiro e scoppiò a ridere: quel suo essere un po’ ribelle e maleducato lo aveva fatto sentire un gran bene! Sistemò una ciotola piena di bocconcini e un’altra con dell’acqua vicino al tavolo della cucina; aprì l’armadio e frugò nella “cesta dei svestiti” alla ricerca della felpa gialla limone: la tenne sollevata tra le mani per qualche secondo e gli occhi gli si velarono di lacrime. La indossò, prese il guinzaglio e accarezzo vigorosamente il suo nuovo compagno. «Andiamo a fare una passeggiata, Esse» disse Leo, mentre un ricciolo ribelle gli ricadeva dolcemente sull’occhio. |